Quasi quattro milioni, quanti gli stranieri nel nostro Paese. Oltre il 50% ha meno di 35 anni, 60 mila studenti l’anno. Di solito ci si ricorda degli italiani all’estero durante le elezioni politiche, quando il loro voto benché lontano può decidere le sorti del nuovo Parlamento. O durante i Mondiali di calcio, quando si scopre in televisione che sono quelli più attaccati al tricolore. L’italiano dello «spaghetti e mandolino», quello che fa la barba fischiettando O’ sole mio o il Nino Manfredi di Pane e cioccolata, forse non c’è più. Perché come diceva Renzo Arbore “lapizza non è un reato” e così (lentamente) la reputazione italiana all’estero sta cambiando. I cittadini italiani residenti all’estero sono 3.915.767, all’incirca lo stesso numero degli stranieri residenti in Italia (3.891.295). Un equilibrio quasi perfetto, destinato per a cedere nei prossimi anni dato che gli immigrati crescono a un ritmo più accentuato. ll primo dato che salta all’occhio è che dei cittadini italiani oggi sparsi per il mondo un terzo è nato all’estero e più della metà ha meno di 35 anni. Sbiadita quindi l’immagine dell’italiano anzianotto che doveva togliere una consonante al cognome per nascondere l’ascendenza italiana. «Si guarda al fenomeno dell’emigrazione moderna con inspiegabile sufficienza» dice Franco Pittau, referente scientifico della quarta edizione del Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes. «I quasi quattro milioni di italiani che vivono all’estero sono un fenomeno per certi versi nuovo e in continua crescita: oggi rappresentano il 6,6 per cento della popolazione italiana». La vera conquista è che l’«italianità» nel mondo oggi è ritenuta un fattore di appeal.
I motivi li spiega Matteo Sanfllippo, docente di Storia moderna all’università della Tuscia e curatore del volume sulle migrazioni della Storia d’italia (Einaudi). «Nel mondo ci vedono come europei e negli stereotipi la Serie B in Europa è diventata quella dell’Est. Gli italiani nati all’estero oggi non si mischiano più con le comunità italo-americane d’una volta, quelle che nei film di Spike Lee erano il gradino più basso dei bianchi: hanno uno stile di vita diverso, vivono tra di loro o si inseriscono nella comunità locale» dice Sanfihippo. Che aggiunge: «Oggi conosciamo bene il livello alto dell’emigrazione, quello di chi si sposta per fare business. Nella moda, le ditte italiane hanno aperto sedi all’estero, nel settore della ristorazione o degli alberghi gli italiani oggi sono i gestori e non più i camerieri». C’è l’ingegnere che va a dirigere un’azienda di software, il banchiere che va per guadagnare il doppio che in Italia o l’universitario che tenta poi di rientrare e ma rinuncia perché il livello scientifico (oltre che lo stipendio) è inferiore. Negli ultimi anni due sono i filoni lavorativi che hanno aperto nuove strade per gli italiani verso l’estero; quello della telefonia che ha fatto muovere molti ingegneri e tecnici italiani e quello del lavoro diplomatico e più in generale legato alle nuove carriere di funzionari in Europa e nel mondo. Resta il fatto che i due terzi dell’emigrazione sono ancora composti da chi si sposta per lavori più umili. «Quella è un’emigrazione difficile da raccontare perché chi parte lo fa illegalmente o con un visto turistico» conclude Sanfilippo.
«L’interesse verso la cultura italiana cresce a tal punto che delle 423 sedi che abbiamo nel rìiondo, il 70 per cento oggi è diretta da un presidente straniero» spiega Alessandro Masi, segretario generale della «Dante Alighieri», società che da 120 anni organizza corsi per promuovere lingua e cultura italiana all’estero. Non si parla più il globish nei Paesi anglofoni o il talian in quelli sudamericani, commistioni di dialetti italiani e slang locale. «Gli italiani nati all’estero imparano la lingua locale e l’italiano per fare un favore al nonno, aggiunge Masi. Se vogliamo che un giorno tornino in Italia dobbiamo rendere spendibile il titolo linguistico conseguito all’estero: per questo le scuole devono garantire un’offerta qualificata perché è cambiata radicalmente la figura dell’emigrante».
Il rispetto per la cultura italiana è quindi cambiato. A partire da quello enogastronomico. L’italiano non è più solo spaghetti e pizza, magari uno sopra l’altro. A New York, il contributo degli chef italiani ha cambiato le abitudini alimentari della città. In Giappone, gli italiani residenti sono 2.900, e quasi duemila i ristoratori italiani a Tokyo. I viticoltori delle Langhe e del Monferrato hanno reso possibile il boom dei vini in Argentina. Gli italiani sono conosciuti nel mondo non solo per aver inviato i propri lavoratori ma -anche per aver costruito con le proprie imprese strade, gallerie, porti. Gli anni Sessanta e Settanta erano quelli del know how italiano al servizio dei templi di Abu Simbel in Egitto o della diga sul fiume Zambesi. Più di recente alle imprese italiane è stato affidato il compito di salvare la «città proibita» di Pechino, restauro tra i più impegnativi al mondo. Attualmente sono 109 cantieri italiani aperti all’estero: producono grosso modo lo stesso fatturato (5,5 miliardi di euro rispetto a 6,3 miliardi) delle imprese di costruzione con sede in Italia.
ll problema reale per gli italiani che lasciano l’Italia per motivi lavorativi, sono le possibilità di rientrare. «Dalla ricerca emerge la precarietà dell’emigrazione del Duemila» spiega don Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes. «I 6oo mila lavoratori che si muovono per sei mesi l’anno sono emigranti part-time che hanno bisogno di tutele sociali. La migrazione italiana sta cambiando e l’esempio più evidente sono gli studenti: 6 mila l’anno quelli che lasciano l’Italia, più di tutti gli stranieri che arrivano da noi» dice Perego. Partono soprattutto i giovani, laureati in cerca di lavoro o ragazzi in cerca di laurea. L’ultimo dato dice che nel 2007 gli universitari italiani iscritti all’estero erano pi ù di 41 mila, soprattutto in Germania, Austria e Gran Bretagna. Molti in Europa si muovono grazie al programma Erasmus, verso la Spagna, la Francia o la Germania: erano 18 mila nell’ultimo biennio.
L’ultima frontiera dell’emigrazione è quella legata allo sport. In Argentina, il leggendario Boca Juniors fu fondato dai genovesi, in Uruguay il Penarol è una libera traduzione di Pinerolo. Se il mondo del calcio ha visto i giocatori stranieri mettersi in coda per cercar gloria (e affari) in Italia negli anni Novanta, oggi la tendenza è invertita. I migliori giovani scelgono di crescere nelle squadre inglesi. Gianfranco Zola, dopo una carriera da calciatore a Londra ha ottenuto in Gran Bretagna la massima onorificenza per uno straniero. Carlo Ancelotti e Fabio Capello insegnano calcio agli spocchiosi d’Oltremanica. Ma non solo. Nel basket tre italiani, come Andrea Bargnani, Marco Belinelli e Danilo Gallinari strappano applausi nel dorato mondo della Nba, che fino a qualche anno fa non sapeva neppure che da noi esistessero i canestri.
Il Corriere della Sera 03.02.10