E’ troppo pretendere di sottrarre i due episodi di violenza accaduti a Torino allo sfruttamento della campagna elettorale. Eppure, sarebbe davvero necessario evitare, almeno questa volta, il solito rimbalzo polemico di accuse, destinato alla consueta sorte: l’assoluta inutilità a prevenire queste tragedie.nNon esiste, innanzi tutto, una specifica e particolare situazione di criminalità giovanile a Torino rispetto a quanto avviene in tutt’Italia e, in particolare, nelle grandi città. La coincidenza temporale di due agguati è suggestiva, ma le circostanze, le nazionalità degli aggressori e delle vittime, le cause, meglio sarebbe dire i pretesti, per lo scatenamento di una violenza così spropositata e sproporzionata sono tali da richiedere un’analisi distinta. Per non rischiare di aggiungere confusione intellettuale, giustificazionismi sociologici, generico moralismo di fronte al pericolo di un aggravamento del clima di intolleranza che indubbiamente sta montando nella nostra società e, in particolare, tra i nostri ragazzi.
L’accoltellamento del giovane romeno da parte di una banda di connazionali in un giardinetto della periferia torinese squarcia il muro di omertà, di sottovalutazione, di indifferenza sul problema della difficile integrazione dei figli di immigrati. Lasciati soli, in quartieri ghetto, dove i genitori spariscono per tutto il giorno e magari per parte della notte, alla ricerca di lavori che consentano di avere più soldi possibili da inviare anche ai parenti rimasti nei paesi d’origine. Ragazzi divisi tra la voglia di omologarsi alle abitudini dei coetanei italiani e il rifugio nelle apparenti sicurezze della tracotanza bullistica dei connazionali.
È facile, per chi non vive in certi quartieri di Torino, considerare il clima di intimidazione che si respira quotidianamente in alcune strade e in alcune piazze come l’inevitabile prezzo di una faticosa integrazione. Più complicata è l’esistenza di chi è costretto a schivarne costantemente i pericoli e non può accettare l’implicito invito alla rassegnazione che lo condanna o alla paura o alla rivolta. Senza un intervento che affianchi alla repressione della piccola e grande criminalità, un piano di recupero educativo, sociale e culturale di questi giovani della seconda generazione immigratoria, le tensioni saranno inevitabilmente crescenti.
Persino più allarmante è il caso del diciannovenne massacrato, in un paese della cintura torinese, da un coetaneo accecato dalla gelosia. Il contrasto tra le motivazioni del litigio e la gravità della violenta reazione contrassegna, in realtà, un costume di rapporti sociali che riguarda una convivenza civile sempre di più esasperata da tensioni incontrollabili. L’esperienza quotidiana di tutti noi, sui luoghi di lavoro, di studio, persino di divertimento registra, con amarezza e stupore, comportamenti assurdi, frutti di un vero e proprio accecamento della ragione. Una violenza che nei giovani si traduce in conseguenze più gravi solo per la loro maggiore esuberanza fisica, ma che, nelle intenzioni aggressive, accomuna tutte le età.
Torino non è certo la capitale della violenza, neppure quella giovanile. Ma sarebbe bello che da Torino cominciasse una rivolta morale per non sopportare più l’offesa, anche verbale, contro qualsiasi persona, di qualsiasi colore. Si può esercitare in tanti modi. Anche cambiando un canale tv.
La Stampa 01.02.10