Ringrazio gli autorevoli professori per le parole di stima che mi hanno rivolto sul manifesto del 20 gennaio scorso e con le quali mi sollecitano a entrare nel dibattito sulla riforma dell’università. Lo faccio con un ritardo di cui spero sarò perdonata.
Dico subito che condivido le loro preoccupazioni. Temo anch’io un’ulteriore involuzione di un sistema universitario che appare sfiduciato, persino rassegnato sulle proprie possibilità di riscatto. La crisi dell’Università è forse l’indizio più evidente della più generale crisi delle classi dirigenti italiane. Le responsabilità vanno cercate anche nel centrosinistra che nella metà degli anni Novanta ha condotto un coraggioso tentativo di ripensare la nostra l’università nell’orizzonte internazionale ma si è anch’esso impantanato in una logica meramente normativa che ha finito per esasperare le burocrazie e l’autoreferenzialità degli atenei.
Il paradosso è che in questo contesto, reso ancor più difficile da una cronica scarsità di risorse, il Ddl Gelmini può apparire a molti come l’ultima occasione per uscire dal pantano. In realtà, con il suo elefantiaco apparato di norme, non fa che esasperare un approccio burocratico, centralista e autocratico, che di fatto cela l’assenza di una visione strategica.
Ma a ben vedere un progetto c’è. Meno soldi e più norme fanno l’università pubblica più povera e bloccata, così come più povera e bloccata appare l’Italia. Un progetto che andrebbe solo ad allargare la forbice tra le università del Nord, che già ottenevano risultati positivi, e quelle del Sud, che non vedrebbero di certo la loro situazione migliorare con l’entrata in vigore di questo disegno di legge. Purtroppo, l’impoverimento del sistema italiano della formazione è la sola direzione di marcia intrapresa dal governo fin dall’inizio della legislatura, con la micidiale sequenza di tagli a orologeria insita nei decreti finanziari del 2008. Per le scuole elementari essi hanno già prodotto lo smantellamento del modulo e la riduzione dell’orario e per le superiori produrranno una significativa riduzione dell’offerta didattica nel prossimo anno scolastico. Per l’università gli effetti peggiori cominciano a dispiegarsi adesso, attraverso una riduzione indiscriminata e senza precedenti dei fondi. E anche se nella proposta del governo non rimane traccia del maldestro tentativo di Tremonti di privatizzare le università trasformandole in Fondazioni, non possiamo abbassare la guardia e considerare per questo del tutto scongiurata la prospettiva di subordinare agli interessi privati il governo dell’istituzione.
I colleghi che hanno scritto sul manifesto riconoscono l’urgenza di profondi cambiamenti. Anche il Pd ne è convinto, tanto da aver formulato e depositato ben prima del governo una proposta di riforma dell’università sulla quale in questi mesi si è aperto un dibattito in alcuni atenei. La segreteria del partito si sta interessando direttamente al tema e lo fa, in particolare, attraverso il Forum Università e Ricerca, che ha iniziato da poco il suo percorso. Questo si svilupperà in una serie di incontri e confronti tematici e territoriali. Probabilmente la discussione va approfondita e resa più stringente anche per affrontare con la necessaria consapevolezza e determinazione il confronto con il governo.
Voglio rassicurare non solo sulla disponibilità dei democratici ad allargare il nostro dibattito e ad ascoltare ogni voce (tanto più quelle di coloro che avanzano timori di una possibile consonanza con gli orientamenti del governo) ma soprattutto sulla nostra consapevolezza che occorre salvaguardare e, anzi, potenziare il carattere pubblico delle nostre università.
Occorre riportare al centro della discussione le vere emergenze e delineare con più coraggio un disegno d’insieme che sappia indicare le necessarie discontinuità e al tempo stesso la funzione irrinunciabile che per noi il sapere e la ricerca rivestono nella qualità dello sviluppo e nella crescita democratica della società.
Tale disegno, il nostro disegno, si basa sulla riaffermazione dell’autonomia delle università e sulla realizzazione di una reale ed efficiente valutazione. Non più dunque un disegno che prevede la preminenza sull’università del Ministero, a sua volta commissariato da quello dell’Economia.
A noi non basta sostenere che si devono riaprire le porte ai giovani ricercatori riconoscendo i loro meriti (soprattutto quando poi si bloccano con la normativa le assunzioni). Non basta dire di voler potenziare la ricerca universitaria con risorse certe, stabili e adeguate (quando queste non si sono). Sappiamo che bisogna ripensare il modello del 3 + 2 facendo tesoro delle buone pratiche e correggendo ciò che non ha funzionato; che si devono individuare criteri trasparenti di accesso alla docenza; che bisogna circondare gli studenti con un welfare che assicuri davvero il diritto allo studio. Tutto ciò è giusto, necessario. Ma diventa senso comune, pratica quotidiana se è inserito in un discorso pubblico condiviso intorno alla funzione dell’università e della ricerca, ad un’idea forte del ruolo – direi del primato – che la cultura e il sapere devono esercitare nello sviluppo di una società più democratica, più libera e aperta, più ricca e più giusta.
Fare delle università vere istituzioni della conoscenza e sede primaria della ricerca pubblica in grado di anticipare e accompagnare i cambiamenti, significa cogliere la sfida di un’Italia aperta al mondo e che nel mondo gioca un ruolo da protagonista, come è avvenuto nelle fasi più innovative e di svolta della nostra storia e come può avvenire oggi per il futuro.
Il Manifesto 31.01.10
Pubblicato il 31 Gennaio 2010