La destra italiana mostra – in campo educativo – una grande competenza nel proporre soluzioni apparentemente chiare a problemi che si trascinano. Ma ogni volta le propone al ribasso. Povere. E soprattutto tali da consolidare, sempre in peggio, lo stato delle cose. Che, però, intanto, lungo i decenni, andavano sfilacciandosi. Mentre noi guardavamo altrove. Tanto che, forse va finalmente detto che vi è un nesso terribile tra la rimozione prolungata dei problemi educativi del Paese di cui molta parte della sinistra è stata co-responsabile e la mannaia semplificatoria della destra.
Un esempio? Il tema del presidio del limite a scuola. Da decenni era del tutto evidente che crescevano comportamenti inaccettabili. Come mantenere le regole, come proporre una scuola sì accogliente ma anche capace di sanzionare quel che non va? Alcuni di noi da molti anni facevano proposte. Invece di mettere note sul registro perché non inventiamo dei cartellini gialli, delle ammonizioni? Con momentanea separazione. Come si fa coi giocatori di hockey. E accompagnate da azioni riparative: pulire, aggiustare oggetti. Simbolicamente forti. Coinvolgendo su ciò le famiglie insieme ai ragazzi, grazie a un patto sottoscritto. Ma spesso – oh quanto spesso – ci si è fatto notare che quella era una deriva autoritaria, che è l’accoglienza quella che conta. Quando è da sempre evidente che accoglienza e regola sono l’una funzione dell’altra.
Passano gli anni. La situazione ristagna e peggiora. E arriva una proposta finta ma leggibile: il 5 in condotta di questo governo. Che non ha una dimensione educativa e non risolve certo la questione del come si fa a cambiare i comportamenti distruttivi di Antonio o Lina. Ma, appunto, sembra chiara a una vasta opinione pubblica. E poi è semplice. Non ci fa pensare.
Beh, è accaduto di nuovo. Con la proposta di ridurre l’obbligo di andare a scuola e trasferirlo nell’apprendistato. A quindici anni. Proposta che, naturalmente, è rivolta alla fascia più debole della popolazione, quella che non riesce a stare a scuola. E che corrisponde esattamente ai figli dei più poveri. Come dimostrano tutti i dati: Ocse, Istat, Commissione povertà, studi Isfol. E anche seri studi della Banca d’Italia e della Confindustria. Chi le frequenta queste cose, le sa.
I quindicenni più esclusi. Ragazzini che vivono nelle periferie delle città del Nord. E, in numero maggiore, nel Mezzogiorno. Dove gli adolescenti sono abbandonati a se stessi… se non peggio. È evidente che, al Nord, i ragazzini caduti già fuori dall’obbligo – perché si assentono, perché vengono bocciati – andranno prima a lavorare. E che si moltiplicheranno due situazioni. La prima è che entrano nel lavoro vivo – nelle fabbriche, in agricoltura, nell’edilizia – ragazzini che fan fatica a reggere emotivamente. I quindicenni di oggi non reggono la richiesta dura di ritmi, affidabilità, procedure, gerarchie. La seconda è che, se, invece, reggono, non si muovono più da lì, con quelle limitate mansioni e un salario misero. E a trent’anni, poi, non riescono a riqualificarsi. E riproducono povertà per sé e i propri figli. Perché i minimi del sapere di cittadinanza non sono stati consolidati. Perché pure per usare i materiali per montare pezzi o verniciare bisogna sapere un po’ di inglese. Perché il computer è ovunque ormai, tranne che nella soglia più bassa di tutte. Perché non è vero che le aziende costruiscono formazione per questa fascia di lavoratori. E perché il famoso life long learning è una chimera in questo Paese. Quali agenzie, pubbliche o private, in Italia, prendono uno che fa il manovale a ventisette anni e lo fa da oltre dieci, gli fanno un bilancio di competenza, gli propongono di riqualificarsi e magari – come, invece, avviene altrove in Europa – gli diminuiscono l’orario mantenendo il salario e gli pagano ore per ri-imparare?
E al Sud dove non funziona né la formazione professionale né l’apprendistato legale? Nella migliore delle ipotesi il quindicenne riceverà il viatico legale per fare quello che già fa. Cioè lavorare al nero – 80 euro a settimana – nelle fabbrichette con pochissimo know how, vendere per le case, pulire scale, fare solo gli shampoo presso i parrucchieri, smontare gomme o pezzi delle macchine senza saperli poi riparare, portare caffè per gli uffici senza neanche imparare a farli. Per non parlare del portare droga in giro, fare il palo, imparare a sparare…
Ma vogliamo dirla tutta? Queste fasce precocemente diseredate – sono ben più dei 126 mila – che, caduti fuori dalla scuola, ora sono candidati a queste prospettive, non li si è visti annaspare a scuola da decenni? Non avevano bisogno di tempo dedicato speciale e aggiuntivo, uno a uno, che superasse questa folle idea dell’uguaglianza, che non sa guardare in faccia la verità delle vite diverse? E le famiglie non potevano avere un premio in denaro se li sostenevano negli studi? Ecco: le proposte operative sulla dispersione scolastica alcuni di noi le facciamo da anni e anni. Ma si trattava di dare cose diverse a persone diverse, come predicava don Milani. E, invece, magari nel nome di don Milani, tanta parte della sinistra ha difeso la scuola com’è, lineare e uniforme, standardizzata. Che non riusciva, però, a conquistare e proteggere proprio chi ne aveva bisogno.
«Marco, perché fai venire a scuola prima e dai la colazione calda a quelli che non ci vogliono venire. Perché dai una paghetta di due euro simbolici al giorno a questi inadempienti all’obbligo? Bisogna dare le cose uguali a tutti». Così arriva Sacconi: le cose stanno come stanno, è meglio mandarli a lavorare e dirlo chiaro. Semplice, senza pensarci troppo su.
Così. Now I have a very little dream. Ora ho un piccolissimo sogno. Mi piacerebbe parlare di quel che faremmo noi. Roba pratica. Operativa. E non di quanto sono cattivi loro. Non è forse sul merito delle cose che dovrebbe fondarsi l’alternativa di cui si parla? Proporre cose concrete, comprensibili ai cittadini. Che magari qualcuno di noi ha pure provato. Al Paese e magari a qualcuno tra gli avversari. Perché no? In alternativa, appunto, a quel che dice e fa questa destra. Ma temo che, in questo come in altri campi, il mio piccolo sogno rimarrà tale. È più facile parlare di “politica” – si fa per dire – che di cose da fare per il bene comune.
L’Unità 27.01.10
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