Nei nuovi curricoli dei licei e degli istituti tecnici e professionali, in via di definizione, la geografia scompare del tutto – o quasi. Non si sono sentite proteste, al proposito. Ad eccezione di quelle sollevate, comprensibilmente, dalle “associazioni di categoria” (in testa l’Associazione Italiana Insegnanti di Geografia e la Società Geografica Italiana), che hanno lanciato un appello accorato (su www.aiig.it e www.luogoespazio.info). Ma c’è da dubitare che troveranno grande ascolto. I problemi che contano e appassionano sono ben altri. Anche se il territorio continua ad essere evocato, per ragioni politiche e polemiche. I confini: vengono chiamati in causa quando c’è da respingere i clandestini. Frontiere invisibili divengono muri visibili per marcare la distanza dagli “stranieri”. Per alimentare domanda di sicurezza, per richiamare la comunità perduta. Il nostro piccolo mondo che scompare, schiacciato dal grande mondo che incombe. Così si invocano le ronde, senza poi formarle. E i “confini” della città sono marcati da cartelli segnaletici che, accanto al nome di città “straniere” gemellate, avvertono: non vogliamo “stranieri”, guai ai “clandestini”. (Quasi che i clandestini si dichiarassero come tali, apertamente, all’ingresso della città).
Siamo orfani dei confini che, tuttavia, non riconosciamo. E non conosciamo più. Come il territorio. Rimozione singolare, visto che mai come in quest’epoca le identità ruotano intorno ai riferimenti geografici. L’Oriente e l’Occidente. Che, dopo la caduta del muro di Berlino, non sappiamo più come e dove delimitare. In Italia, il Nord e il Sud. La Lega Nord e il Partito del Sud. Si rimuove la geografia mentre la geografia si muove. Insieme ai confini. Centinaia di comuni vorrebbero cambiare provincia. Oppure regione. E molte province si spezzano; mentre, parallelamente, ne nascono altre di nuove. E se guardiamo oltre i nostri confini abbiamo bisogno di aggiornare le mappe. Un anno dopo l’altro. Per de-finire i paesi (ri)sorti in seguito al crollo degli imperi geopolitici. Per “nominare” contesti senza nome oppure ignoti, un attimo prima, il cui nome è rivendicato da popoli che ambiscono all’indipendenza. Da minoranze che vorrebbero venire riconosciute e da maggioranze che ne reprimono le pulsioni. Così, scopriamo, all’improvviso, dell’esistenza di Cecenia, Abkhazia, Ossezia, Timor Est. Mentre Cekia e Slovacchia sono, da tempo, felicemente divise. Ma molti non lo sanno e continuano a “nominare” la Cecoslovacchia.
In questo paese – ma non solo in questo – il “popolo” più detestato è quello Rom. Gli zingari. Accusati di molte colpe – talora a ragione. La principale fra tutte: non avere una patria. Una residenza. Rifiutarla. Troppo, per una società che ha dimenticato il territorio – sepolto sotto una plaga immobiliare immensa e disordinata. Ma continua a evocare le “radici”. E non sopporta chi è nomade. Sempre altrove.
Questa società: non ha più bisogno di mappe, bussole, atlanti, carte geografiche. Basta il Gps. Ciascuno guidato da un satellitare o dal proprio cellulare. In auto ma anche a piedi, in giro per la città. Una voce metallica, senza accento, intima. “Ora girare leggermente a destra, poi andare dritto per 100 metri”. Ma se finisci in contromano, una marea di auto che ti corre (in)contro; oppure davanti a un muro, a un divieto di circolazione, e ti fermi, preoccupato, si altera: “Andare dritto!!”. E quando cambi direzione, per non essere travolto, non si rassegna e ordina: “Ora fare inversione a U”. Anche se hai imboccato una strada a senso unico.
La società del Gps è popolata di persone etero-dirette, che si muovono senza un disegno, né un progetto. Non sanno dove andare e neppure dove sono. Questa società – questa scuola – non ha bisogno di geografia, né di geografi. Ma neppure della storia: visto che la geografia spiega la storia e viceversa. Questa società – questa scuola – questo paese: dove il tempo si è fermato e il territorio è scomparso. Dove le persone stanno ferme. Nello stesso punto e nello stesso istante. In attesa che il Gps parli. E ci indichi la strada.
La Repubblica 22.01.10
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La Gelmini “taglia” la Geografia dai tecnici e professionali
Confondere Haiti con Tahiti è un peccato che non si può considerare veniale, soprattutto in questi giorni. Eppure succede. Proprio in questi giorni. A riscontrarlo è la Aiig, l’associazione italiana insegnanti di geografia, preoccupata per gli effetti che potrebbe avere la riforma Gelmini della scuola superiore con il ridimensionamento dello studio di questa materia. E proprio per cercare di frenare questo processo, l’associazione ha presentato documenti alle Commissioni Cultura di Camera e Senato e ha lanciato una raccolta firme via internet che ha raccolto 4.000 adesioni in tre giorni, tra cui quelle dell’architetto Paolo Portoghesi, del Rettore della Sapienza Luigi Frati, del documentarista Folco Quilici, di Luca Mercalli, il meteorologo ospite fisso della trasmissione di Fabio Fazio “Che tempo che fa”.
Ma perchè questa battaglia? «Perchè meno geografia rende tutti più poveri», risponde Gino De Vecchis, docente, geografo e presidente dell’Aigg. «La formazione di un cittadino – aggiunge – passa anche dalla geografia, ossia la scienza dell’umanizzazione del pianeta terra e dei processi attivati dalle collettività nelle loro relazioni con la natura e nel corso della storia». Con la riforma Gelmini, invece, spiega De Vecchis «si penalizza una materia già tanto mortificata negli anni, privando gli studenti di conoscenze indispensabili, relativi ai grandi problemi mondiali, come quelli ambientali, socio-economici, geopolitici e culturali, legati alla globalizzazione. Con la riforma, infatti, l’insegnamento della geografia scomparirebbe in tutti gli istituti professionali e in quasi tutti i tecnici, con un’incomprensibile eliminazione per esempio nell’indirizzo “logistica e trasporti”. Drastica, inoltre la riduzione nei licei, dove già si fanno solo due ore settimanali e solo nel primo biennio».
Quanto ai licei scientifici «nel primo biennio la geografia, a differenza degli altri licei, verrebbe associata alla storia con 99 ore, ossia tre ore settimanali complessive tra storia e geografia. La nostra richiesta – aggiunge De Vecchis – è che si ripristino le 66 ore destinate autonomamente alla geografia, tenendo presente che, diversamente da altre discipline di base, questa è del tutto assente nel triennio. Un modulo di 66 ore nel biennio costituisce il tempo minimo per consentire una formazione geografica basilare e indispensabile».
A De Vecchis fa eco Daniela Pasquinelli, che dell’Aiig è segretaria nazionale. «Giorni fa – racconta – ero sull’autobus e ho sentito alcuni studenti che parlavano del terremoto di Haiti. Sapete dove si trova Haiti?, ho chiesto, scatenando un dibattito tra i ragazzi. Erano convinti che Haiti fosse l’isola delle ragazze con le corone di fiori al collo e i gonnellini di pagliai. Insomma, avevano confuso l’isola caraibica di Haiti con uno dei gioielli della Polinesia nel Pacifico. Del resto oggi molti studenti dimostrano difficoltà anche nella localizzazione delle regioni italiane. Conoscere la geografia – osserva Pasquinelli – non significa memorizzare nomi. La geografia dei mari, dei monti non esiste più, è un retaggio ottocentesco».
«Siamo molto preoccupati – conclude De Vecchis – perchè questa materia tocca temi cruciali: dai fenomeni migratori ai cambiamenti geopolitici, ai confini mutevoli, non solo politici, ma anche culturali, sociali, economici, fino allo sviluppo sostenibile e alle diversità culturali».
L’Unità 24.01.10
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