È stato il terremoto più violento degli ultimi due secoli nell’isola, ma come ne avvengono almeno una ventina, ogni anno, al mondo. E quasi mai provocano centinaia di migliaia di morti. Per riscontrare numeri così elevati bisogna spingersi indietro nel tempo e in altri luoghi: nella Cina del XVI secolo, dove morirono 830.000 persone nello Shansi, oppure nella pianura di Kanto, in Giappone, dove, nel 1923, le vittime furono oltre 200.000. In tempi più vicini, le città cinesi di Tientsin e Tangshan furono rase al suolo, con 200.000 vittime, nel 1976 e non si può dimenticare il terremoto di Sumatra di soli cinque anni fa, quando morirono 250.000 persone anche a causa del maremoto. Ogni anno la Terra è attraversata da centinaia di migliaia di sismi di magnitudo superiore a 3, ma solo in alcune regioni, e in particolari condizioni, le vittime sono così tante. Perché?
Qualcosa la si deve al tipo e alle caratteristiche intrinseche del terremoto: magnitudo 7 Richter non è così elevata rispetto ai terremoti giapponesi e cinesi che arrivano anche a oltre 8, però l’ipocentro è stato superficiale (13 km) e perciò gli effetti peggiori. Ma i principali responsabili del gran numero di vittime sono sempre gli stessi: sovraffollamento e cattiva costruzione. Nonostante il rischio sismico fosse elevatissimo e ben noto, l’estrema povertà di Haiti, la corruzione e l’inesistente amministrazione hanno consentito di costruire senza alcun criterio antisismico anche laddove si fosse utilizzato cemento armato (come per il palazzo presidenziale). «Effetto pancake» lo chiamano, quello per cui palazzi alti decine di metri rimangono schiacciati come frittelle senza che le strutture abbiano offerto alcuna resistenza. Ma la maggior parte della popolazione ha costruito in legno o muratura povera, senza alcuna regola e, soprattutto, in modo troppo affastellato, lasciando strade così strette da restare completamente bloccate intralciando i soccorsi.
Ma come si è operato a Port-au-Prince è la regola delle aree metropolitane del Sud del mondo (dove si concentra ormai la maggior parte della popolazione), come Mexico City o Calcutta: quelle ubicazioni furono scelte in tempi remoti scartando le zone ritenute pericolose sulla base di antiche sapienze, per esempio evitando i terreni paludosi, dove gli effetti del terremoto si amplificano. Oggi decine di milioni di persone vivono attorno agli antichi nuclei colonizzando con costruzioni fatiscenti i terreni una volta scartati. Così può accadere che rimangano in piedi vecchie case accanto a palazzi moderni distrutti, o che alcuni edifici vengano rivoltati sul posto senza però fracassarsi, come scatole di cemento armato basculate sul posto. Ma le megalopoli continuano ad attrarre senza sosta milioni di disperati nullatenenti dalle campagne di tutto il mondo, gente che non ha posto migliore per insediarsi che non i terreni meno idonei. Dove sorgono capanne, favelas e bidonville lì si concentreranno i danni e i morti dei terremoti del futuro, che diventeranno inevitabilmente i terremoti dei poveri.
Non è cosa nuova: negli ultimi mille anni i terremoti hanno ucciso otto milioni di persone e tutto lascia intendere che le cose potrebbero andare peggio nel prossimo futuro. Lo stesso sisma provocherà una strage epocale nel mondo povero, centinaia di morti dalle nostre parti (come dimostra quello aquilano, pur trentacinque volte meno distruttivo di quello haitiano) e solo qualche cornicione abbattuto in California. La storia è sempre quella: le catastrofi naturali non esistono, esiste solo la nostra nota incapacità di tenere conto del rischio naturale ovvero la possibilità di conoscerlo molto bene e fare comunque finta di nulla per avidità o per incapacità. O per l’assoluta mancanza di risorse e di memoria.
La Stampa 15.01.10
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