La “fase due” del governo, che contemplava la “rivoluzione fiscale” e le “grandi riforme nell’interesse del Paese”, corre sullo stesso binario dal quale si è mossa la terza legislatura berlusconiana. All’indomani del trionfo del 13 aprile 2008 il primo atto dell’esecutivo fu il Lodo Alfano. Oggi, venti mesi dopo, il primo atto della “ripartenza” è un decreto legge che sospende i processi del presidente del Consiglio. Nella parabola del Cavaliere non esiste un nuovo inizio, ma solo un eterno ritorno. Oggi, il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare quella che, ad un parziale e sommarissimo esame, appare come l’ennesima “ghedinata”, benché concepita molto meglio delle precedenti.
Il provvedimento ha una tortuosa discendenza giuridica. Congelerà i procedimenti penali nei quali il pm abbia chiesto e ottenuto, durante il dibattimento, “contestazioni suppletive” a carico dell’imputato (Berlusconi rientra nella fattispecie, avendone subite sia nel processo Mills che in quello sui diritti tv Mediaset). La norma “sospensiva”, studiata come sempre dagli avvocati-parlamentari del premier, si renderebbe necessaria per consentire allo stesso imputato, sottoposto ai nuovi addebiti, di scegliere il rito abbreviato (che in base al codice attuale gli sarebbe permesso solo nella fase precedente, cioè nell’udienza preliminare). Il tutto, sulla base di un principio di “parità” di trattamento del cittadino di fronte alla legge fissato dalla Corte costituzionale in una sentenza pubblicata giusto il 14 dicembre scorso, passata inosservata ma foriera di effetti “straordinari” (nel senso letterale, cioè “non ordinari”).
È sulla base di questa sentenza, infatti, che Berlusconi può sperare in un via libera al decreto da parte del presidente della Repubblica. Volendo seguire le sue false promesse di riconciliazione disseminate in queste ultime settimane, verrebbe da chiedere al premier perché non ha anticipato a Giorgio Napolitano l’intenzione di presentare questo provvedimento nel suo incontro al Quirinale di due sere fa. Oppure, volendo seguire le sue eversive minacce di strumentalizzazione formulate in questi ultimi mesi, si potrebbe chiedere al premier perché oggi gli torna utile la pronuncia di quel “covo di comunisti” rinchiusi nel palazzo della Consulta, e se anche quella costituzionale, stavolta, si possa definire “giustizia a orologeria”. Ma mettiamo da parte la correttezza istituzionale e la coerenza personale, che è materia indisponibile nel presidente del Consiglio.
Mai come in questo caso, di fronte ad una vicenda così delicata, ci rimettiamo alla saggezza del Capo dello Stato. Al suo ruolo di custode delle regole e di garante delle istituzioni. Sta a lui valutare se una misura “straordinaria” come questa (sia pure finalizzata a colmare una lacuna dell’ordinamento vigente già rilevata dalla Consulta) possieda effettivamente i requisiti di “necessità e urgenza” richiesti dalla Costituzione. Sta a lui giudicare se una sospensione dei processi, che consenta all’imputato di esercitare anche in fase dibattimentale il diritto al rito abbreviato, si possa raggiungere anche attraverso la semplice “fisiologia” della procedura penale (cioè le decisioni dei singoli giudici, attraverso le istanze di remissione), oppure attraverso il ricorso alla legislazione ordinaria (cioè le decisioni del Parlamento, attraverso un disegno di legge).
Ma di questo provvedimento, nel frattempo, possiamo denunciare senz’altro la rovinosa conseguenza politica. Ancora una volta, il Paese e il Parlamento sono paralizzati dalla permanente ossessione giudiziaria del presidente del Consiglio. Le istituzioni sono ostaggio della sua costante emergenza processuale. In questo clima (come dimostra il surreale annuncio sulle tasse e su due sole aliquote Irpef) per il governo non esiste un’altra “agenda”. Non esistono altre “priorità”. Soprattutto, non esistono “riforme”. Com’è logico e giusto, di fronte all’ennesima forzatura del Cavaliere il Pd chiude tutte le porte al confronto. Anche quelle poche che erano state aperte, con troppa fretta e troppa approssimazione.
Bersani, legittimamente, aveva detto: discutiamo di tutto, a patto che il premier rinunci alle leggi “ad personam”. È successo l’esatto contrario, ed ora l’opposizione annuncia l’ostruzionismo, com’è suo dovere in una democrazia degna di questo nome. Così finisce il gigantesco equivoco del “dialogo”, che in realtà era solo una colossale trappola. Così svaniscono i propositi gandhiani del premier. A prenderla sullo scherzo, torna in mente un vecchio film di Massimo Troisi: pensavo fosse amore, invece era un calesse. Ma nell’Italia berlusconiana, ormai, non c’è proprio niente da ridere.
La Repubblica 13.01.10
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“Carta di riserva per il dialogo”, di MARCELLO SORGI
Dopo un mese e passa di promesse di dialogo tra governo e opposizione, la rottura maturata ieri sulla giustizia non deve meravigliare. Berlusconi non solo non ha rinviato i provvedimenti depositati in Parlamento per garantirsi il salvacondotto penale, ma allo stesso scopo ha cominciato a studiare un decreto legge – da portare oggi al Consiglio dei ministri – basato su una sentenza della Corte Costituzionale che prevede, a certe condizioni, la sospensione di tre mesi dei processi.
Era scontato che Bersani, su questo terreno, non potesse concedergli nulla.
L’accelerata di ieri del Pd è dipesa anche dall’ipotesi del decreto. Il premier vi si è accostato quando ha saputo che nei prossimi due mesi dovrebbe comparire ben ventitré volte al Palazzo di giustizia di Milano. Un calendario considerato incompatibile con gli impegni di governo, e determinato, forse, dai numerosi rinvii chiesti finora dal Cavaliere. Ma il Pd si stava preparando alla svolta anche prima, lamentando che, come altre volte, il governo avesse preparato fuori dalle Camere il testo del suo maxiemendamento. La versione definitiva del «processo breve», il contestato taglio dei tempi dei procedimenti penali, è stata scritta materialmente a Palazzo Grazioli.
Nelle ultime legislature, questo di considerare il lavoro delle commissioni parlamentari e dei singoli deputati e senatori come un optional, da correggere un minuto prima del voto con un testo governativo blindato, è un malvezzo al quale i governi, non soltanto l’attuale di centrodestra, si sono purtroppo abituati. Da parte di Palazzo Chigi, esservi ricorso anche su una materia controversa come questa, dà l’idea dell’importanza che il premier attribuisce al proprio salvataggio.
Tra governo e opposizione, e tra governo e magistratura, si andrà quindi a uno scontro di fortissima intensità, destinato ad occupare quasi interamente la campagna elettorale per le elezioni regionali. Dopo le quali invece, dovrebbe tornare in discussione il destino delle grandi riforme di cui fino a tre giorni fa si parlava con ottimismo. Ieri i toni del leader del Pd non lasciavano sperare che dopo una contrapposizione come quella che si prepara il dialogo possa riprendere tanto facilmente. Eppure, la sensazione, che riguarda, sia Berlusconi, sia Bersani, è che entrambi alla fine si tengano una carta di riserva.
Il Cavaliere ha voluto dare una spinta ai due testi giacenti in Parlamento – «processo breve» e «legittimo impedimento» -, e non ha escluso il ricorso al decreto, perché, con tre colpi in canna, si sente più sicuro di centrare il suo obiettivo. Se anche uno solo di questi provvedimenti dovesse andare in porto, però, non è detto che insisterebbe sugli altri due. Anzi, potrebbe fermarsi, e una volta superate le elezioni regionali, verificare se da parte del centrosinistra esista ancora la disponibilità a un diverso tipo di intesa. Ad esempio, com’è emerso negli ultimi giorni, sul ripristino per via costituzionale dell’immunità parlamentare.
Quanto a Bersani, la faccia dura all’annuncio della svolta era dovuta. Ma il «mettersi di traverso» del Pd non si sa ancora se preluda a un ostruzionismo parlamentare, o a una dura opposizione, ma senza ostruzionismo. Sicura, al momento, è soprattutto l’irritazione del centrosinistra per il metodo seguito dal centrodestra e per il confronto promesso e negato. E in una battaglia parlamentare senza esclusione di colpi, verrà quel che verrà.
Non è facile, certo, parlare di tregua, nel giorno stesso in cui viene dichiarata guerra. Ma al di là delle leggi del Cavaliere, la giustizia e i rapporti tra il potere politico e quello giudiziario interessano molto anche il centrosinistra. Sono troppi anni che le riforme mancate tengono il Paese inchiodato a una transizione infinita. Che l’opposizione lasci Berlusconi e la maggioranza ad ingoiare da soli il loro rospo, è comprensibile. Mentre è difficile credere che anche stavolta, la politica, nel suo complesso, non si giochi la posta più alta.
La Stampa 13.01.10
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“Dimezzato lo stop ai procedimenti e arriva il via libera del Quirinale”, di LIANA MILELLA
Napolitano esige la modifica, mediazione di Letta e Fini. I processi congelati per 45 giorni e non per tre mesi. Berlusconi insiste per le tre leggi ad personam. Il braccio di ferro si scioglie a sera. Grazie alla mediazione di Fini e alla pazienza di Letta che, per una giornata, sale e scende le scale del Quirinale. Alla fine è decreto che, seppure per soli 45 giorni e non per i tre mesi che pretendeva Berlusconi, fermerà comunque i suoi dibattimenti.
Il Cavaliere ha vinto a metà, e ora resiste a chi lo pressa per fargli abbandonare subito, addirittura già oggi, il processo breve. Ma lui vuole tirare diritto ed è pronto alla sfida, convinto com’è che tre leggi ad personam, tutte nello stesso momento, tra Senato e Camera, non sono troppe per mettere a tacere i suoi incubi giudiziari. Processo breve, legittimo impedimento, adesso il decreto che congela i processi per un mese e mezzo. Avanti, anche a costo di vivere un’altra giornata di fuochi d’artificio tra palazzo Chigi e Quirinale come il 12 gennaio 2010 che passerà alla storia dei tormentati rapporti tra gli inquilini dei due palazzi come quello in cui, per l’ennesima volta, Napolitano ha posto un freno a un premier che vuole usare la legislazione a suo uso e consumo.
È mattina presto quando i giornali consegnano al presidente della Repubblica la notizia che Berlusconi vuole trasformare in un decreto legge una sentenza della Consulta fresca del 14 dicembre 2009, scritta da Giuseppe Frigo, sponsorizzato per l’incarico di alto giudice appena pochi mesi fa dall’avvocato del premier Niccolò Ghedini. L’ha annunciato lo stesso Cavaliere nel vertice sulla giustizia. L’ha presentato a tutti i venti presenti come lo strumento per consentirgli di bloccare i casi Mills e Mediaset per tre mesi, giusto fino alle elezioni. Passaggio semplice: la Corte dice che se il pm ha contestato all’imputato una nuova accusa durante il dibattimento costui ha il diritto di chiedere il rito abbreviato e di farlo godendo di una sospensione congrua per pensarci bene. Legge retroattiva, naturalmente, senno non servirebbe a capo del governo, ma neppure ai tanti che magari si trovano nelle sue stesse condizioni. Legge che riguarda appieno le inchieste milanesi in cui, sia per Mills che per Mediaset, c’è stata una nuova accusa mossa dalla procura.
Ma lo stesso Berlusconi, che pure ha incontrato Napolitano lunedì sera, non gli ha detto nulla, probabilmente per non rovinare subito il clima del primo incontro dopo l’aggressione di Milano. Il presidente non gli ha chiesto nulla sulla giustizia, lui ha taciuto. Ma adesso il telefono di Letta squilla di buon ora. Lo staff del presidente, a suo nome, chiede chiarimenti. E il sottosegretario alla presidenza, l’uomo delegato ai rapporti con il Colle, capisce che la cosa migliore è salire subito da Napolitano con in mano il testo del decreto.
Il faccia a faccia è franco, nello stile asciutto che contraddistingue i rapporti tra i due. Il presidente chiede spiegazioni innanzitutto per l’inspiegabile silenzio del premier su una notizia, di assoluto rilievo, che poi è comparsa sui giornali. E poi sul contenuto. Sul quale pone dei paletti preventivi, visto che tocca proprio a lui, al capo dello Stato, firmare i decreti. Letta dettaglia il testo e poi lo lascia al Quirinale. Napolitano con lui è esplicito: solo dopo un’attenta lettura e solo dopo un riscontro meticoloso e puntuale sull’effettiva corrispondenza tra il decreto e la sentenza della Consulta, sulla congruità tra atto governativo e massima della Corte, farà conoscere la sua posizione e le sue osservazioni.
Letta torna a palazzo Chigi. Dove, quando è fine mattinata, giunge un alto là. Il testo così com’è non va bene. Va modificato. Il presidente lo firma solo se le sue correzioni saranno accolte. Innanzitutto quella sulla durata della sospensione, da tre mesi a 45 giorni. Berlusconi si ferma. Il decreto, che fino a quel momento veniva dato per certo per il Consiglio dei ministri di oggi, viene frenato. Si studiano soluzioni alternative, come inserire la norma in uno dei decreti in scadenza, il milleproroghe o quello sulle procure disagiate, ma balza subito all’occhio che la materia è disomogenea. Poi si scandaglia la via di infilarlo come emendamento al processo breve o al legittimo impedimento. Ma i tempi sarebbero troppo lunghi e la norma stessa inutile per gli scopi di un Berlusconi che vuole gestirsi in tutta tranquillità, con i dibattimenti congelati, la sua campagna elettorale.
E qui interviene il presidente della Camera che media tra le richieste del Colle e le pretese del premier. Gianfranco Fini s’incontra con Giulia Bongiorno, alle prese nella commissione Giustizia, che presiede, col legittimo impedimento. I due esaminano il testo che, nel frattempo, Ghedini si è precipitato a sottoporle. Decidono che, riveduto e corretto, alla fin fine attua una sentenza della Consulta. Tra le norme ad personam non può ottenere la palma di quella peggiore, anche se è stata prodotta solo perché c’è di mezzo Berlusconi, il quale d’improvviso riscopre l’importanza della Consulta, che pure ha accusato di essere un’emissaria dei comunisti per la bocciatura del lodo Alfano. Il testo ritorna al Quirinale dove Napolitano decide di dare un segnale di pacificazione. E dà il via libera. Ora resta da scrivere la storia prossima ventura del processo breve. Che pure i finiani vorrebbero veder fermato, ma a cui il Cavaliere non rinuncia.
La Repubblica 13.01.10
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“È l’unico modo per difendermi”, di Ugo Magri
In cambio del via libera al decreto, il Pdl può rinunciare al processo breve
Tutto quanto sta scuotendo il Palazzo, compreso il decreto «blocca-processi» che il governo mette in campo, risulta inspiegabile senza un’occhiata al foglio che da giorni Berlusconi si gira e si rigira tra le mani. Porta un’intestazione: «Udienze già fissate avanti al Tribunale di Milano nei processi cosiddetti Mills e Diritti Mediaset».
Sono incolonnate e suddivise per mese. Si incomincia con venerdì prossimo (Mills), poi viene lunedì 18 (Diritti), quindi si salta al 25 gennaio (ancora Diritti), di lì a venerdì 29 e a sabato 30 (Mills). Fino al giorno delle elezioni regionali, che si terranno il 28 marzo e come sempre saranno un referendum sul Cavaliere, il quale se perde si mette nei guai, vincere resta la sua condanna, di qui ad allora dunque sono ben 23 le convocazioni del premier davanti ai giudici: 5 volte entro gennaio, 9 a febbraio, altrettante in marzo prima delle elezioni… Ecco come e perché nasce il dramma politico di queste ore.
Berlusconi si trova nell’insostenibile posizione di giocare a rimpiattino coi magistrati per i prossimi tre mesi, inventandosi volta a volta impegni di governo che ne giustifichino l’assenza. O viceversa, deve prendere il coraggio a due mani e presentarsi davanti ai giudici, come farebbe qualunque cittadino senza responsabilità di governo. Un dilemma di cui si discute animatamente nello staff del Cavaliere, poiché ciascuno dei due corni comporta rischi politici mortali. Berlusconi, se cedesse all’istinto, sceglierebbe decisamente il colpo di teatro. Senza preavviso, andrebbe almeno una volta in Tribunale a difendersi. Confida in privato che «sarebbe l’occasione buona per far sentire la mia voce, per spiegare al Paese come stanno davvero le cose e dimostrare a tutti tanto l’infondatezza delle accuse, quanto la persecuzione di cui sono vittima».
Abile come nessuno nella comunicazione, tenterebbe di rovesciare i ruoli, ergendosi a giudice di chi prova a condannarlo. Ma soprattutto, contrasterebbe l’immagine data finora, di premier costretto a inventarsi lunghi viaggi oltremare o improbabili tagli di nastro pur di sottrarsi alla giustizia. Però Ghedini sconsiglia il blitz in Tribunale. Da avvocato, gli vengono i brividi al solo pensiero dei guasti che uno show provocherebbe sul piano processuale. Altro conto sarebbe frequentare le udienze, tutte però, non una soltanto. Come fece ad esempio Andreotti. Ma Giulio era già senatore a vita.
Berlusconi, viceversa, non se lo può permettere, e lui stesso lo riconosce: «Dicono che mi dovrei difendere nei processi e non dai processi. D’accordo. Allora prendo il calendario in mano, e ne devo dedurre che dovrei smettere di governare…». Mostra il foglio ai suoi interlocutori: «Visto? Ci sono settimane addirittura con 3 udienze. Ma per partecipare ai processi bisogna studiarsi prima le carte. Ho fatto portare da Ghedini ad Arcore tutti i faldoni, occupano un tavolo intero… E allora, per essere davvero presente in Tribunale, io non dovrei fare altro nella vita». Ecco il dilemma impossibile del premier: scappare (non può più) o difendersi (nemmeno).
Ed ecco perché, misurando l’impraticabilità dell’una e dell’altra via, è spuntato fuori dal suo cilindro questo coniglio del decreto «blocca-processi», Napolitano permettendo e con la mediazione di Fini (i due co-fondatori del Pdl si vedranno domani a pranzo): per Berlusconi, sarebbero tre mesi garantiti di tregua pre-elettorale. Qualcuno dice che in contraccambio il governo affonderebbe il «processo breve», cruccio del Colle. Può essere. Ma il premier non pare del tutto convinto. In mente ha un altro piano: far approvare il «processo breve» dal Senato in prima lettura, e poi tenerlo in caldo alla Camera fin dopo le Regionali, un po’ come «pistola puntata» contro i giudici, sempre pronta all’uso.
Nel frattempo sarà andato avanti il «legittimo impedimento». E soprattutto, la Corte di Cassazione si sarà pronunciata sulle due condanne all’avvocato Mills. Anche qui, occhio alla data scritta sul foglietto: 25 febbraio. L’aspettativa del premier è che la Suprema Corte spazzi via l’intero processo. A via del Plebiscito coltivano la «ragionevole speranza». A quel punto, getta avanti lo sguardo Berlusconi, «potremo fare le riforme della giustizia con serenità, dopo le Regionali. E avremo quasi 3 anni di tempo, senza elezioni di mezzo, per riscrivere la Costituzione».
La Stampa 13.01.10