Con i pochi soldi che vengono destinati alla ricerca di base il nostro paese rischia – tra dieci anni – di rimanere senza cervelli. «Se non si sostiene questo tipo di ricerca – dice Roberto Petronzio, presidente dell’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) – non si formano menti brillanti e creative. E senza menti brillanti e creative non c’è progresso e innovazione». E’ un po’ come mettere un’ipoteca sul futuro della scienza in Italia. Il pericolo è reale e i numeri sono drammaticamente emblematici. Stando all’ultima rilevazione Istat, sui 18.231 milioni di euro che in totale il nostro paese (Stato e imprese private) investe in Ricerca & Sviluppo (R&S) solo una piccolissima fetta va alla ricerca di base. Tra pubblico e privato, solo il 26 per cento (4.700 milioni di euro) degli investimenti complessivi va a finire nelle tasche dei cervelli che lavorano per creare conoscenza e, quindi, innovazione. «Bisogna mettersi in testa – dice Tommaso Maccacaro, presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) – che non esiste ricerca applicata senza ricerca di base. Senza le fondamenta, infatti, non si costruiscono le applicazioni».
Sono ormai dieci anni che alla ricerca fondamentale è stato affibbiato il ruolo di Cenerentola, a favore della ricerca applicata. Ed è infatti proprio quest’ultima a beneficiare della quasi totalità dei soldi destinati a R&S, sia da parte dei privati che del pubblico. Questo settore di ricerca assorbe infatti circa un terzo della spesa delle università e oltre il 40 per cento di quella delle imprese, sino ad arrivare al 58,5 per cento per le istituzioni pubbliche e al 65,5 per cento per le istituzioni non profit.
In un panorama in cui gli investimenti nel settore della ricerca in generale sono inferiori alla media europea e a quella degli altri paesi industrializzati, l’unico segnale positivo arriva dalle imprese che hanno cominciato ad investire qualcosa in più (15 per cento), ma si limitano alla sola ricerca applicata. Quella per intenderci che permette un veloce rientro dei capitali investiti. La ricerca di base invece, su cui il rischio investimento è molto più alto, segna il passo con un misero 5,5 per cento delle risorse dei privati. Del resto, questo tipo di ricerca non è mai stata d’interesse per le aziende italiane.
«Nel nostro paese la ricerca di base – dice Stefano Fantoni, membro della commissione Firb (Fondo per gli Investimenti nella Ricerca di Base) e direttore della SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste – è stata sempre finanziata, tranne rare eccezioni, dal pubblico. Sono i grandi enti di ricerca, con i loro budget, e il ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, con i Firb e i Prin (Programmi di ricerca di Rilevante Interesse Nazionale), a investire nella ricerca fondamentale». E non sempre lo fanno bene. Ai problemi economici con cui devono fare i conti molti enti di ricerca, che a malapena riescono a pagare gli stipendi, si aggiungono ritardi e intoppi amministrativi. L’ultimo ha riguardato il bando Firb intitolato «Futuro in Ricerca », a cui hanno partecipato 4 mila giovani ricercatori under 40 che non hanno ancora ricevuto risposte.
«La situazione – assicura Fantoni – si è sbloccata. A brevi questi giovani ricercatori riceveranno una risposta dal ministero e probabilmente verranno aumentati anche i fondi inizialmente previsti per via della straordinaria partecipazione al bando». Ma di intoppi ci sono e probabilmente in futuro ce ne saranno ancora.
«Da quando esistono i Firb e i Prin (Programmi di ricerca di Rilevante Interesse Nazionale) – spiega Fantoni – ci sono sempre stati ritardi o congelamenti dei fondi. Quello che è successo a questi 4 mila ricercatori under 40 è successo tante altre volte prima». Certo, gli stessi problemi colpiscono spesso anche la ricerca applicata che però può sempre contare sull’aiuto dei privati. E non solo. Di recente, il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola ha lanciato con un decreto la formula «contratti di innovazione tecnologica» che mette a disposizione delle imprese che investono in ricerca applicata 2 miliardi di euro. Un investimento, questo, che rischia di aumentare il gap già esistente con la ricerca di base.
«Va benissimo rinforzare gli investimenti nella ricerca applicata, ma non dimentichiamoci che alla base di tutto c’è la ricerca fondamentale» dice Petronzio.
Gli straordinari risultati raggiunti fino ad oggi nella ricerca fondamentale dai nostri scienziati – per fare un esempio il contributo italiano all’Lhc del Cern – sono frutto degli investimenti effettuati negli anni passati. «L’eccellenza di oggi è frutto della rendita del passato. Se si vuole continuare ad eccellere la ricerca fondamentale deve essere salvaguardata», conclude Petronzio.
Il Messaggero 12.01.10