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La visione della Gelmini: una scuola di classe, di Eugenio Mazzarella

La ripresa legislativa per la scuola italiana è stata amara in Commissione Cultura e Istruzione della Camera con l’arrivo della conversione in legge del decreto Berlusconi-Gelmini sul maestro unico nella scuola primaria. Sostanzialmente il piatto forte del decreto, con il contorno scenico del ritorno del voto in decimi, della valutazione della condotta, e del libro di testo adottabile per un quinquennio. Questo piatto forte del decreto è stato presentato dal Governo e, con qualche dissimulata sofferenza dalla maggioranza, come la panacea di tutti i mali della scuola primaria italiana, affetta da bulimia di spese (lo stipendificio per lo più rivolto a pessimi docenti meridionali con cui ci ha deliziato la Gelmini quest’estate) e anoressia di risultati di qualità. Eppure la scuola primaria è l’unico segmento formativo italiano collocato nelle prime posizioni di tutte le classifiche del settore, anche quelle richiamate dal governo. Ma l’argomento per il Governo è debole, a fronte dell’esigenza di ridurre il rapporto studenti-docenti, troppo alto rispetto alla media europea, e di dare alle famiglie più libertà formativa per i loro figlioli, liberandoli da un tempo in classe troppo prolungato, che gli consenta qualche ora quotidiana in più per attività formative extrascolastiche. Il maestro unico e l’orario obbligatorio di fatto ridotto saranno più efficienti per le casse dello Stato e per la formazione dei bambini. Questa è la tesi del Governo. Il cui idealtipo educativo, su cui concentrare gli sforzi, è un bambino di buona famiglia, ben seguito da genitori attenti, che abbiano la disponibilità economica, e a discendere organizzativa familiare, per attingere liberamente fuori della scuola, in modo magari più creativo, quel quanto di formazione extracurriculare che gli viene tolto in classe. In buona sostanza, per strappare un sorriso, la filosofia ’creativa’ di Linus: “meglio ricchi e felici, che poveri e malati”. Facendo grazia al Governo dell’obiezione che il rapporto docenti-allievi, per il Governo da abbassare portandolo a medie europee, è incrementato da dati non depurati (ad esempio i docenti di sostegno e di religione), l’antitesi a questa boutade didattica e formativa è nel realtipo educativo italiano presente in vaste fasce sociali, soprattutto quelle più deboli, che si ampliano sempre di più, cominciando ovviamente dal Sud, ai cui peggiori risultati scolastici medi il Governo pure dice di voler porre riparo. E questo realtipo parla di famiglie nient’affatto in grado di sostenere costi aggiuntivi extrascolastici per la formazione dei loro ragazzi, tanto più che non saranno certamente i Comuni, a loro volta messi in difficoltà dall’abolizione dell’Ici a poter fornire ai ceti medio-bassi, che sono la maggioranza del Paese, gratis o a prezzi “popolari” le opportunità formative extracurriculari portate fuori della scuola. In sostanza il progetto del Governo è una formazione flessibile in una società flessibile, dove chi può irrobustirà la sua formazione con mezzi propri, e chi non può starà a guardare. Alla società flessibile serve una formazione “di classe”, questa sembra essere lo spot del Governo, nel senso che la qualità formativa, un mix tra quello che lo Stato offrirà nella scuola, e quello che dovrai procurarti a tue spese fuori della scuola, sarà appannaggio privilegiato di chi se la potrà permettere in termini di censo, cioè appunto di classe. Né a dire che i risparmi previsti dall’introduzione del maestro unico e dalla riduzione dell’orario scolastico saranno investiti sulla scuola secondaria o sull’università, dove il confronto con l’Europa mano a mano che si sale nella filiera della formazione ci imporrebbe investimenti maggiori. Anzi, anche qui Gelmini taglia, per fare cassa. Alla fine la pagheranno le 87.000 maestre in meno e i 42.000 esuberi del personale ATA. Bel modo di far volare l’Italia. Ma anche a voler tenere in conto la franchezza di Tremonti, che l’ha fatta breve dichiarando a Ballarò che la scuola primaria italiana sarà pure di qualità, ma non ce la possiamo permettere, anche come mera manovra di cassa per il Paese il decreto è una manovra sbagliata. Se si guarda ai costi sociali allargati del decreto – per le famiglie che dovranno integrare di tasca propria, se lo potranno, il deficit i formazione extracurriculare prodotto dal combinato disposto maestro unico-riduzione a 24 ore settimanali del tempo curriculare obbligatorio; per gli enti locali, se potranno e vorranno sostituirsi, ricorrendo a nuova imposizione, agli impegni formativi cui lo Stato viene meno; per la spesa sociale, ovviamente sollecitata da 130.000 disoccupati in più – il decreto rischia di essere a somma zero per il sistema Paese. Inspiegabile resta, su una materia così delicata, su cui ci sarebbe stato bisogno un ampio confronto in Parlamento e con le parti sociali, nella quasi totalità – come risulta dalle audizioni in Commissione Cultura – contrarie al maestro unico e all’orario ridotto, il ricorso al decreto, se l’urgenza di fare cassa per sostenere i costi di qualche promessa elettorale del premier, a cominciare dall’Alitalia. E, per restare in tema, se qualche perverso risparmio avanzerà, molto probabilmente sarà usato per costituire un tesoretto cui far ricorso a fine legislatura per finanziare in extremis qualche meschino ed elettoralistico taglio dell’Irpef da vendere agli elettori e recuperare il consenso perso strada con gli infortuni sociali prevedibili con l’approccio di Tremonti alla finanza pubblica, impegnato con una cura di magra per lo Stato. Però a Tremonti andrebbe ricordato che lo Stato e la sua spesa pubblica sono un po’ come la pecora famosa del capitalismo, la puoi tosare non oltre lo spellamento; dopo l’ammazzi e basta.
* docente di filosofia teoretica all’Università Federico II di Bari, deputato Pd
L’Unità 21 Settembre2008

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