C’erano una volta le elezioni amministrative, quelle che davano una boccata d’ossigeno all’opposizione. Quelle, specialmente se regionali, che davano il segnale di una coalizione di governo minoritaria nei consensi e pronta a passare la mano (2005). Quelle, addirittura, che potevano portare alle dimissioni di un presidente del Consiglio (2000). E oggi? Se si guarda la cartina dell’Italia quando mancano un’ottantina di giorni alle regionali, il Pd sembra più che altro in difficoltà. Allo stato governa in 11 delle 13 regioni che vanno al voto. E che la cifra è destinata a calare lo ammettono apertamente, dentro al Pd. Il punto è: di quanto? Forse la situazione non è ancora da allarme rosso. Però il fatto che non siano ancora stati scelti i candidati governatori nelle regioni chiave, quelle cioè che alla fine dei conti decideranno l’esito di un voto che comunque costituisce un test politico nazionale, non lascia indulgere all’ottimismo.
Bersani, ai non pochi che gli fanno arrivare messaggi di preoccupazione, ripete due parole: «Tranquillità e serietà». E questa frase: «Non dobbiamo vincere la gara delle candidature ma le elezioni di marzo». Ovvero, «se serve qualche giorno in più per lavorare alle coalizioni e individuare i candidati vincenti, ci prenderemo qualche giorno in più». Diranno i fatti se è la strategia vincente. Intanto, uno esterno al Pd come il centrista Casini può permettersi di dire che «c’è chi vuole utilizzare una sconfitta alle regionali per liquidare la segreteria Bersani». Il che, unito ad alcune ricostruzioni fatte in questi giorni, fa dire all’esponente della minoranza Pd Antonello Giacomelli che non ci sono «conflitti interni» e che da parte di Area democratica c’è «un atteggiamento costruttivo e di grande collaborazione». Aggiunge il deputato Pd, tra i più vicini a Franceschini: «L’obiettivo per il quale noi lavoriamo è quello di una grande affermazione del Pd e dei suoi alleati». Precisazioni che danno comunque l’idea del clima che già si inizia a respirare.
Puglia dolente
Quello della Puglia è il caso più eclatante delle difficoltà che il Pd sta attraversando, tra accelerazioni (l’autocandidatura di Nichi Vendola), veti (quello dell’Udc) e continui colpi di scena (Michele Emiliano che prima appoggia il governatore pugliese, poi si dice pronto a sfidarlo alle primarie, poi fa sapere che rinuncia alla candidatura se non viene approvata la legge che non rende necessarie le sue dimissioni da sindaco di Bari). Per tentare di sbrogliare la matassa ci sarà oggi una riunione a Roma, al quartier generale del Pd. Ci saranno i vertici del Pd pugliese e ci saranno, per il nazionale, il vicesegretario Enrico Letta e il coordinatore della segreteria Maurizio Migliavacca. Pier Luigi Bersani non ci sarà. Il che vuol dire che si riserva la carta dell’intervento del segretario per un altro momento, più in là. Ovvero, che l’incontro di oggi si chiuderà senza che venga presa una decisione definitiva (e le ipotesi al momento sono delle più varie, dal sostegno a Vendola al cedimento alla leggina per Emiliano alla candidatura di Francesco Boccia). L’esatto contrario di quello che ha chiesto ieri Lorenzo Cesa, ovvero «un’indicazione chiara e conclusiva». E l’Udc, comunque vada, domani riunisce i vertici del partito pugliese, mentre si fanno sempre più insistenti le sirene a favore di Adriana Poli Bortone, candidata in pectore per il centrodestra. Questo mentre Antonio Di Pietro intima al Pd di «non usare il nome dell’Idv per far passare o per bloccare una candidatura piuttosto che un’altra», che insomma il suo partito non ha messo nessun veto su Vendola e che se non viene presa in fretta una decisione «saremo costretti a fare da soli».
L’empasse Lazio
Nel Lazio, dove Renata Polverini ha già tappezzato i muri delle città sfoggiando una giacca rossa e nessun simbolo di partito, non va meglio. Il pressing su Nicola Zingaretti non si ferma e il presidente della Provincia, oltre a ripetere che intende portare a termine il mandato, inizia anche a innervosirsi. L’empasse è tale che ogni giorno fioriscono non solo ipotesi di nomi che vanno da quello di Emma Bonino a quello di Walter Veltroni. Ora iniziano a farsi avanti anche candidati per le primarie (che non è affatto detto che si faranno), come l’ex ministro Alessandro Bianchi e l’inventore dell’Estate romana Renato Nicolini. Come se non bastasse, anche qui l’Idv minaccia, «se il Pd non trova un candidato in tempi brevi», di indicare da sé un ticket: «E io nel Lazio penso a Ignazio Marino o a Mario Adinolfi», dice il coordinatore regionale Idv Stefano Pedica, che già qualche giorno fa aveva tentato senza troppo successo un’analoga operazione chiamando in causa Debora Serracchiani.
Quattro Pd e un Idv in Calabria
Dove è sicuro che l’Idv correrà da sola è in Calabria. Qui il Pd andrà alle primarie: correranno il presidente uscente Agazio Loiero, il presidente del Consiglio regionale Giuseppe Bova, la deputata Doris Lo Moro e il consigliere regionale Bruno Censore. Tutti e quattro, al congresso, hanno sostenuto la mozione Bersani. E, per complicare ancora un po’ le cose, Bova ha fatto sapere che se vincerà lui potrebbe far correre al posto suo un esponente dell’Udc. Vicenda da cui si è tirata fuori, appunto, l’Idv, che ha deciso di sostenere Pippo Callipo, imprenditore (è quello dell’omonimo tonno) ed ex presidente di Confindustria Calabria.
Udc in solitaria nelle regioni rosse
A correre da sola è l’Udc, invece, in Emilia Romagna e Toscana. Ovvero le uniche due regioni in cui la vittoria per il Pd è certa. Ce ne sarebbe una terza, l’Umbria, ma chissà quanto in profondità incideranno le fibrillazioni provocate dal fatto che la minoranza si dice contraria a un terzo mandato per Maria Rita Lorenzetti. Dove invece l’Udc potrebbe presentare un suo candidato incassando il sostegno del Pd è in Veneto (tra i papabili c’è il coordinatore centrista Antonio De Poli). Al Nazareno si parla dell’opportunità di avviare qui «un nuovo laboratorio con l’Udc». Quel che è certo è che i centristi hanno escluso un’alleanza se il candidato governatore non sarà uno dei loro.
L’Unità 04.01.10