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"Berlusconi deve dare una risposta a Napolitano", di Eugenio Scalfari

Come tutti i discorsi chiari e complessi, quello indirizzato agli italiani la sera dell’ultimo giorno dell’anno dal presidente Napolitano è facile e al tempo stesso molto difficile da commentare. Ha parlato per poco più di venti minuti. Non ha tralasciato alcuno dei temi che interessano i cittadini. Tutti i cittadini, da lui esplicitamente nominati: gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani, i lavoratori e gli imprenditori, i volontari, i militari, le forze di polizia, gli studenti, i docenti, i magistrati, i liberi professionisti, i residenti all’estero, gli immigrati. Insomma tutti, ma soprattutto i giovani, i lavoratori e il Mezzogiorno.

Queste sono dunque le priorità scelte da Napolitano e sulle quali egli ha richiamato l’attenzione della pubblica opinione; è stato lui stesso a dircelo con il suo messaggio alla nazione. Ma questa è soltanto la prima segnalazione che emerge dalle sue parole.

La seconda segnalazione emerge dall’ordine in cui sono disposti gli argomenti; ordine non casuale perché quel discorso è calibrato fin nelle virgole anche se è intriso di passione civica e intellettuale.
Al primo posto ci sono i temi del lavoro, della disoccupazione, la constatazione che molte sono le persone e le famiglie in grave e crescente disagio, il timore che questo disagio sia destinato ad aumentare nei prossimi mesi, la necessità che sia al più presto organizzata una rete completa di ammortizzatori sociali che ancora non c’è. Giovani, precari, abitanti del Sud e rispettive famiglie sono i soggetti più colpiti dalla crisi per i quali non sono ancora stati predisposti i necessari sostegni.

Il Presidente ha ricordato che questi moniti erano stati da lui formulati già nel discorso del 31 dicembre 2008. Da questo punto di vista si deve dunque registrare l’inadempimento del governo rispetto a necessità oggettive prevedibili e previste. Non siamo noi a dirlo, ma il messaggio presidenziale.

La terza segnalazione e il tono generale dell’intero messaggio si ispirano a speranza e fiducia. Non si tratta di formulazioni generiche ma di sentimenti solidamente motivati da Napolitano. Questo è un aspetto molto importante del suo messaggio perché tocca un tasto inconsueto: il Presidente riconosce e si compiace dell’attiva resistenza che gli italiani, la società italiana, i ceti che la compongono, hanno opposto alla crisi riuscendo ad attenuarne i devastanti effetti e dandosi carico dei disagi gravi che essa ha comunque prodotto.

Una resistenza attiva e condivisa: ha detto proprio così il Presidente, richiamando altri momenti della nostra storia repubblicana nei quali una resistenza analoga, quasi un istinto di sopravvivenza collettiva, spinse la nazione fuori dalla tempesta che ne stava mettendo in causa l’esistenza. Quali sono stati quei momenti? Tre soprattutto e Napolitano ne ha fatto cenno più volte nelle sue pubbliche (e private) esternazioni: la solidarietà degli italiani con le organizzazioni partigiane nel ’44-45; la fase della ricostruzione dell’economia dopo la catastrofe della guerra; la compattezza nazionale contro il terrorismo negli anni di piombo dal ’78 all’83.

Viene qui a proposito ricordare un sondaggio di pochi giorni fa, commissionato e pubblicato dal giornale “24 Ore”, con varie domande. Una di esse interrogava il “campione” sulla Costituzione: se era inadatta e superata o invece ancora viva nei valori e nei principi e quindi meritevole di essere sostenuta. La maggioranza in favore della seconda risposta è stata altissima, quasi il 90 per cento si è espresso in favore della Costituzione. Altissima e per certi versi imprevista.

Cito questo dato perché ci introduce ad un altro aspetto del messaggio presidenziale dell’altro ieri, che riguarda direttamente la questione delle riforme istituzionali e della situazione politica entro la quale il processo riformatore si colloca.
Il Presidente avrebbe potuto sfumare questo problema, farne cenno come memorandum e auspicarne la realizzazione. Invece è andato molto più oltre: ne ha indicato le condizioni di fattibilità. Non le sue condizioni perché il suo ruolo è quello di un testimone “informato dei fatti” e al tempo stesso titolare d’un potere di constatazione e di garanzia. Non dunque le sue condizioni ma quelle oggettive, in mancanza delle quali quelle riforme non potranno essere realizzate.

La prima condizione è che quelle riforme siano condivise da una maggioranza molto ampia. La seconda è che siano accantonati i pregiudizi. La terza è il rispetto delle procedure fissate dalla Costituzione stessa. La quarta è che, per quanto riguarda le riforme istituzionali, esse si limitino alla seconda parte e non alla prima della nostra Carta che ne indica i principi ispiratori e che è, per definizione, intangibile.
Fa piacere registrare che – a parte il distinguo della Lega e l’inopinata uscita di Brunetta contro l’articolo 1 – tutte le altre parti politiche si siano dichiarate d’accordo con lo spirito e la lettera del messaggio presidenziale. Ma qui sorge qualche dubbio e qualche non marginale punto interrogativo.

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Non solo la prima parte della Costituzione, ma anche il discorso dell’altro ieri del Presidente della Repubblica indicano i principi intangibili dei quali si auspica la condivisione di tutte le parti politiche, senza di che sarà molto difficile compiere quelle riforme: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri costituzionali e la loro reciproca indipendenza, il rafforzamento delle istituzioni di controllo e di garanzia. Questo assetto dello Stato è indisponibile, cioè non può essere modificato neppure da eventuali pronunciamenti della volontà popolare la quale deve essere esercitata nei limiti previsti dalla Costituzione.

Ma dall’inizio di questa legislatura – e anche prima ve ne erano state preoccupanti anticipazioni – Berlusconi e il gruppo dirigente del suo partito hanno messo all’ordine del giorno una modifica della Costituzione che ha tutti i connotati di un mutamento radicale e dovrebbero essere proprio quei fondamenti costitutivi e indisponibili ad esserne coinvolti.

Quando Napolitano, dopo aver ricordato i suddetti principi, ravvisa nell’abbandono dei pregiudizi una delle condizioni tassative per la realizzazione delle riforme, a quali pregiudizi si riferisce?
In tutte le comunità, da quelle religiose a quelle democratico-costituzionali, esistono principi non disponibili sui quali è per definizione impossibile ogni negoziato. Non crediamo di forzare il discorso del Presidente se ravvisiamo nel radicalismo anticostituzionale del premier l’ostacolo da rimuovere affinché la modernizzazione della seconda parte della Carta possa aver luogo. Di più: la procedura di revisione prevista dall’articolo 138 esclude un “forum” extra-parlamentare che elabori un nuovo sistema e lo proponga in blocco all’approvazione delle Camere. Il 138 esamina modifiche specifiche caso per caso da sottoporre separatamente ai referendum confermativi quando manchi l’approvazione della maggioranza qualificata richiesta dalla Costituzione.

Questo è dunque lo schema entro il quale si possono realizzare le riforme. Esso richiede dunque un mutamento politico sostanziale nell’approccio fin qui sostenuto dal governo. Spetta perciò al premier, che ne è il principale sostenitore, rispondere al Presidente della Repubblica e alle forze di opposizione su questo punto fondamentale.
La riforma della giustizia, della quale anche ha parlato il Capo dello Stato, fa parte di questo chiarimento per tutto ciò che attiene alla Costituzione, leggi “ad personam” comprese.

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In questo quadro ha importanza anche quella sorta di disarmo linguistico tra le parti politiche di cui il cosiddetto “partito dell’amore” rappresenta la metafora immaginifica.

Quel disarmo è auspicabile ed in parte è già avvenuto, almeno per quanto riguarda il Partito democratico da un lato e alcuni settori del governo e della maggioranza parlamentare. Pensare tuttavia ad una spersonalizzazione del confronto politico non è obiettivo a portata di mano. Esso richiederebbe un mutamento radicale nei comportamenti e addirittura nel carattere del premier, anzi per esser chiari fino in fondo una premiership di tutt’altra natura.

Si può chiedere a Silvio Berlusconi di non essere più Silvio Berlusconi? Si tratta ovviamente d’una domanda retorica alla quale la sola risposta possibile è negativa. Berlusconi è un fenomeno politico inseparabile da una personalizzazione estrema che costituisce l’elemento addirittura fondativo del suo partito. Perciò la personalizzazione continuerà per la semplice ragione che essa è ormai diventata un elemento istituzionale.
La sola cosa che si potrebbe chiedere sarebbe una sua moderata attenuazione, un esibizionismo più controllato e più sobrio, per usare un aggettivo che appare – anch’esso non casualmente – nel discorso di Napolitano. Sarebbe per esempio sommamente inopportuno che il premier impostasse la campagna elettorale per le elezioni regionali sulla propria effigie coperta di sangue dopo l’improvvido “attentato” di piazza del Duomo.

Purtroppo proprio questo avverrà e sta già avvenendo; avremo i muri delle città tappezzati dal volto d’un Berlusconi ferito e sanguinante, un “grandguignol” in piena regola che dilagherà anche negli spot televisivi: un colpo d’accetta su un confronto politico normale, come auspica con stimabile tenacia il Presidente della Repubblica.

Mi domando che cosa potrà avvenire se lo stravolgimento costituzionale auspicato dal centrodestra passerà alle Camere senza maggioranza qualificata e sarà quindi sottoposto a referendum confermativo.
Si troveranno in quel caso a confronto due disegni, due visioni, due concezioni della politica e del bene comune radicalmente antitetiche. Una rappresentata da Silvio Berlusconi e l’altra da Giorgio Napolitano.
Sicuramente quest’ipotesi non è nelle intenzioni del Capo dello Stato ma oggettivamente sarà questa la natura e la sostanza di quel confronto e di quei referendum.

Date le premesse che abbiamo fin qui illustrate, c’è solo da auspicare che ciò non avvenga, ma dipende solo dal premier far sì che l’auspicio si verifichi, in mancanza di che si avrà un confronto il cui esito sarà incertissimo e denso delle incognite più preoccupanti.
La Repubblica 03.01.10

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