Non sono pochi coloro che si domandano, quando perdono la fiducia di poter cambiare il mondo: come si rinasce? E ancora: possibile che non esistano politici forti come Churchill o Luigi Einaudi, capaci di spiegare i mali che incombono senza occultarli, d’indicare la rotta senza temere l’impopolarità? Sono due domande diverse, perché la prima riguarda la responsabilità dell’individuo mentre la seconda concerne la selezione del leader. Ma tutte e due hanno in comune l’angoscia del presente e il desiderio di migliorare la pòlis: di renderla meno tenebrosa, opaca. Di uscire da qualcosa che somiglia a una prigione, dietro le cui inferriate l’occhio stanco s’abitua a vedere poco spazio, poche novità, poco futuro.
Non è la prima volta che l’uomo ha avuto quest’impressione di cadere, oggi così intensa: questo senso di grandi occasioni per sempre perdute. Eppure la storia insegna che proprio in quei momenti la mente si sveglia, ricomincia: che proprio allora ridiventiamo uomini che agiscono, che prendono iniziative. Alla vigilia della prima guerra mondiale alcuni spiriti vigili intravidero il collasso, dietro la chimera del dolce commercio mondiale e della belle époque. Altri spiriti profetici ritennero che il mondo andava reinventato, dopo l’atomica gettata su Hiroshima. Ogni collasso si presenta come morte delle cose e al tempo stesso come possibile rinascita, come nuovo inizio e iniziazione. Pensare la pòlis era questo, già per Agostino: «Perché ci fosse un cominciamento fu creato l’uomo. Per introdurre nel mondo la facoltà del dare inizio: la libertà».
Oggi, di fronte a mutamenti climatici che insidiano il pianeta, siamo a un bivio simile: ancora una volta, è da noi che dipende la facoltà di dare inizio, escogitando un nuovo rapporto dell’uomo con la natura, con l’economia, con la crescita. Possiamo annientare la terra oppure provare a custodirla. Possiamo cercare di informarci sui pericoli o accettare spiegazioni che vengono dall’alto. Possiamo cominciare a vedere il pianeta come una persona: con inviolabili diritti alla vita. In uno dei suoi più sublimi romanzi, Joseph Conrad narra l’incontro – fondativo – dell’uomo con l’Occasione. Nella prima giovinezza Lord Jim perde l’Occasione, consegna al naufragio la nave affidatagli: per accidia, ignoranza volontaria, impreparazione. Tutta la sua vita diventa a questo punto anelito d’incrociare di nuovo l’Occasione, senza mancarla.
In fondo le nazioni riunite la scorsa settimana a Copenhagen hanno vissuto un’esperienza analoga. Hanno mancato l’occasione, in modo clamoroso perché le sciagure non erano loro ignote. La sfida era limpida, e tuttavia il fallimento è stato totale: nessun impegno vincolante, nessuna parola chiara detta ai popoli. Perfino l’accordo del ’97 a Kyoto fu più serio di questo. Come quando Lord Jim diserta la nave, hanno vinto tutte le forze dell’animo che impediscono di rinascere, di ripartire: la forza di inerzia e l’accidia, la vista corta, la non responsabilità e l’accontentarsi triste. Lasciare il pianeta così com’è è molto più che accumulare debiti per le generazioni future. È condannare a morte i nipoti e la terra che lasceremo in eredità.
Vale la pena ricominciare? Fernando Pessoa ha ragione: «Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola». Tutto, anche il Mare di Tenebre che ci aspetta oltre il fatidico Capo Bojador: perché a quel mare «Dio diede il pericolo e l’abisso, ma è in lui che fece rispecchiare il cielo». Si tratta solo di sapere come, di intuire nella figura della Catastrofe la presenza dell’Occasione, del libero initium di Sant’Agostino. Vorrei ricordare qui un preciso momento storico, in cui l’Occasione si presentò – appunto – sotto forma di morte dell’umanità. Accadde quando l’America di Truman sganciò l’atomica su Hiroshima, il 6 agosto 1945. Ho guardato il New York Times di allora, per capire l’epifanico incontro dell’uomo con la sua Occasione. Ci fu orrore, e al contempo subitaneo risveglio delle menti.
Il giorno dopo il disastro, il 7 agosto, il New York Times scrive che per governare una scoperta scientifica così atrocemente ambigua, gravida «di immensi benefici e di impensabili annientamenti», occorreva «creare subito, senza rinvii, un mutamento mentale e le necessarie istituzioni nazionali e mondiali». Il 12 settembre ’45 Hanson Baldwin, esperto militare del quotidiano, sostiene che il mondo è a una svolta: «Nella mente di molti stranieri e di tanti americani, l’atomica non è solo uno straordinario successo scientifico. Segna la fine della leadership morale americana».
Anche allora l’occasione fu persa: a poco servì l’allarme dei profeti, e quel che venne non fu il governo mondiale dei pericoli ma la mortale gara atomica Usa-Urss. È a questo punto che Robert Oppenheimer, che pure aveva fabbricato la bomba, tenta di resuscitare l’Occasione. Quel che propone alla potenza americana dei primi Anni 50 è una politica del candore, della trasparenza. Candore nei negoziati internazionali, nella comunicazione col popolo, nei colloqui fra scienziati. L’atomica aveva non solo squilibrato i poteri nel mondo, ma minacciava ogni leadership morale e la natura stessa della democrazia. Compito essenziale del leader era dire la verità, con candore: i pericoli e disastri bisognava che la gente li vedesse nitidi davanti a sé, che non venissero nascosti alla vista e alla coscienza del mondo. L’umanità doveva rendersi conto che camminava sull’orlo di baratri, guardandoci dentro. Non piacque a nessuno, la proposta di Oppenheimer. In America, i falchi lo denunciarono per filosovietismo alla commissione McCarthy. La bomba doveva restare indiscussa, avvolta da tenebre.
Ma l’ingiunzione etica e politica di Oppenheimer serve anche oggi. La paura del futuro che traspare nei commenti del ’45 sul New York Times; l’immediata richiesta di azione, che la paura secerne quand’è feconda; la consapevolezza che i veri attacchi alla democrazia vengono dalla manipolazione dell’informazione, e da giornali conformisti che occultano la verità. Questo abbiamo appreso, da fallimenti e cadute. Lord Jim insegna che solo chi ha perduto grandi occasioni sa risvegliarne di nuove, riconoscerne l’aspetto, trasformarle in meta di un’intera esistenza.
La Stampa 24.12.09
1 Commento