Gli ultimi dati sulla disoccupazione in Italia mostrano una situazione molto drammatica. Di fronte a questo quadro tutti si chiedono quando la crisi finirà.
Ma pochi si chiedono come. Si cerca una ripresa, una qualsiasi, senza chiederci se questa sarà davvero l’occasione per ristrutturare l’economia e il sistema produttivo italiano. Perché dietro ai dati drammatici di questi giorni non c’è solo la crisi congiunturale mondiale esplosa l’anno scorso, ma una crisi più lenta e profonda del sistema economico-produttivo italiano che si protrae ormai da quasi trent’anni e su cui nessuno è mai intervenuto. Già dalla fine degli Anni Settanta, in Italia come in tutte le economia avanzate, si era cominciato a parlare di processi di deindustrializzazione. Eppure mentre in altri Paesi come l’Inghilterra o la Svezia tali processi sono stati avviati con determinazione e accompagnati con politiche economiche e sociali conseguenti, in Italia tutto questo non è avvenuto.
Checché se ne dica, l’Italia alla fine era ed è ancora un Paese molto industriale, non è un caso se oltre il 60% dei 500 mila posti di lavoro persi quest’anno vengono dall’industria (quasi l’80% se si includono le costruzioni). I tanto menzionati servizi avanzati, quelli che in altri Paesi hanno trainato l’ingresso nella nuova economia e il dispiegarsi della cosiddetta economia della conoscenza o della creatività, in Italia non si sono mai sviluppati pienamente. Anche per questo la domanda di laureati e di profili altamente qualificati in Italia non è mai decollata negli ultimi anni, registrando variazioni minime e tenendosi sempre sotto il 10% della domanda espressa dalle imprese. Il settore dei servizi in Italia è cresciuto, sì, ma meno che altrove, e solo in pochi casi si è trattato di aziende e sistemi davvero all’avanguardia e di respiro internazionale in grado di generare occupazione di qualità e valore aggiunto.
Basta pensare che nel mercato del lavoro italiano la richiesta di competenze linguistiche è più bassa nei servizi (18%) che nell’industria (20%) – e questo includendo tra i servizi anche tutto il settore turistico! La maggior parte del nostro settore dei servizi è ancora dominato da piccole aziende di livello medio-basso, ben lontana dello sviluppo vertiginoso di servizi professionali legati al design, ingegneria, architettura, oppure settori come l’informatica e l’elettronica, l’entertainment multimediale, la ricerca tecnologica e biomedica che si è visto in altre realtà. In altri Paesi questi settori hanno visto lo sviluppo di vere e proprie multinazionali, che assumono e formano competenze di altissimo livello e che operano su scale globali. Settori e aziende che certo non hanno impedito a questi Paesi di soffrire la crisi dell’ultimo anno, ma che hanno consentito loro di trasformare veramente le economie nazionali e locali nel corso degli ultimi venti anni, rendendole più dinamiche e più capaci poi di cavalcare le riprese che seguono alle crisi. L’Italia resta invece il regno dei piccoli studi professionali o dei professionisti a partita Iva e forfettino. Individui che, da soli e col sistema burocratico e fiscale italiano difficilmente riusciranno a crescere e sfondare sul mercato globale e che saranno sempre scoperti di fronte a ogni colpo di vento.
La ripresa, se e quando avverrà, li farà tornare a galla, ma difficilmente potranno veleggiare spediti nel mare dell’economia mondiale, che sarà sempre più dominato da chi ha saputo investire davvero nelle competenze, nei saperi, in tecnologie e professionalità. Questo è il prezzo che l’Italia paga per essere rimasta attaccata a modelli produttivi e occupazionali vecchi e inadeguati, e per non aver mai affrontato davvero problemi cruciali come, per esempio, la liberalizzazione delle professioni e dei servizi, la gestione di nuove forme di lavoro e della fiscalità ad esse collegata, la riorganizzazione della ricerca e dell’Università, l’emergere delle industrie culturali e creative su scala globale. Finché l’Italia non affronterà di petto tali questioni sarà costretta ad aspettare sempre di uscire dalle crisi a traino, e mai come locomotore.
La Stampa 18.12.09