«Piano Bindi». Ancora in corso l’erogazione di risorse per aumentare la ricettività. Gli enti locali: Bologna e Genova abbassano le tariffe ai genitori disoccupati.
Impossibile raggiungere il target europeo del 33 per cento – Forti ritardi nel Mezzogiorno
È tutta una questione di residenza. Riuscire a far entrare il proprio figlio al nido non dipende tanto dall’età del bambino, o dalla busta paga di mamma e papà, quanto dalla regione dove vive la famiglia. Così chi abita in Emilia o in Umbria avrà buone chance di successo, visto che ad almeno un bambino su quattro è garantito il posto, mentre molto peggio andrà ai campani: qui solo il 2% dei piccoli ha l’asilo assicurato. Il Dipartimento per le politiche della famiglia scatta una fotografia dove appena un bambino su sei è tra le mura colorate e piene di giochi dei kinder garden : il 16% del totale, infatti, riesce a entrare nelle strutture (pubbliche o private) dedicate alla prima infanzia. Gli altri cinque sono fuori. Nonostante 727 milioni (446 statali e 281 di cofìnanziamento regionale) stanziati nel triennio 2007-2009 dal cosiddetto «Piano nidi» voluto dall’ex ministro Bindi per aumentare i posti in tutti i servizi per i bambini fino a tre anni.
«Rispetto all’11 per cento certificato dall’Istat nel 2004 – spiega Roberta Ceccaroni, funzionario del Dipartimento guidato dal sottosegretario Giovanardi – si registra un balzo in avanti deciso, solo in parte effetto del censimento dei servizi privati che cinque anni fa non erano considerati». I posti sono passati da 18mila a oltre 250mila, ma il target fissato dal Trattato di Lisbona sembra ormai irraggiungibile. Entro il 2010 infatti si dovrebbero garantire i servizi per la prima infanzia a un bambino su tre.
I dati a disposizione evidenziano il prevalere dei nidi privati in Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli, Umbria e Calabria, mentre in Liguria e Lazio c’è un testa a testa con i servizi pubblici e nelle altre regioni la quota privata non supera il 40% del totale. In alcune zone del Sud però mancano criteri di accreditamento per il rispetto di standard minimi di qualità. «Anche alla luce del recente caso di Pistoia (arresto di due educatrici per maltrattamenti, ndr) – sottolinea Ceccaroni – occorre sempre mettere al centro la qualità dei servizi offerti ai bambini, che dipende essenzialmente dal livello del personale». Un ruolo decisivo spetta a Regioni e Comuni: le prime nel definire i criteri di autorizzazione e di accreditamento, i secondi attraverso il controllo degli standard richiesti presso i servizi pubblici e privati attivi sul territorio. Dal monitoraggio del piano Bindi però emergono risultati in chiaroscuro: non tutte le regioni hanno leggi aggiornate sul fronte nidi e sono più di sessanta le definizioni diverse di servizi per la prima infanzia a livello locale. Da qui il tentativo, attraverso la raccolta di dati regionali, di ricondurre tutte le diverse tipologie a due macroaree fondamentali: i nidi d’infanzia e i servizi educativi integrativi.
Il piano nidi triennale è formalmente concluso – e per ora non sono state stanziate nuove risorse per rilanciarlo – ma nella realtà oltre la metà delle regioni deve ancora ricevete l’ultima tranche del finanziamento. E alcune sono in forte ritardo. «Come la Campania – sottolinea Ceccaroni – che ha deliberato il piano regionale solo a inizio 2009 e ha così potuto ricevere solo la prima parte dei fondi».
A due anni dalla firma dell’intesa tra Stato, regioni e autonomie locali sono stati erogati oltre 345 milioni, il 77% di quelli stanziati. Ma solo meno della metà – circa 150 milioni – è stata assegnata ai comuni per realizzare le strutture sul territorio. «Il bilancio finale – comrnenta Ceccaroni – e l’aumento effettivo dei posti sarà misurabile solo al termine del 2010, visto che la creazione di servizi richiede tempi superiori ai due anni».
E così il gap territoriale resta marcato. Mentre le regioni del Centro-Nord si avvicinano alla meta europea, con Emilia Romagna, Toscana e Umbria a guidare il plotone dei virtuosi (tutte oltre il 25%), il profondo Sud registra tassi di accoglienza dei bambini inferiori al dieci per cento. «Nel Meridione – commenta Daniela Del Boca, docente di economia politica all’Università di Torino e direttore del centro Child – i nidi sono pochi e stigmatizzati, le famiglie sono scoraggiate ed evitano di fare domanda». Senza contare la convinzione radicata che «i figli piccoli stanno meglio con le loro madri, anche perché le alternative finora sono state poche e non sempre di alta qualità».
Per aumentare l’offerta di servizi per la prima infanzia si sono nel frattempo aperti altri due fronti. Da un lato il progetto «Nidi nella Pa», che punta a creare fino a 100mila posti nell’arco di un decennio per i figli dei dipendenti pubblici grazie ai risparmi legati all’innalzamento dell’età pensionabile delle donne. Dall’altro, il piano «Tagesmutter» finanziato dal ministero delle Pari opportunità per creare fino a 700 nidi familiari che potranno accogliere dai 2.100 ai 3.500 bambini. «La diffusione delle mamme di giorno – conclude Del Boca – avrà effetti positivi sull’uso dei servizi e l’occupazione, a patto però che consenta risparmi rispetto alle rette dei nidi privati e una maggiore flessibilità di orario».
da Il Sole 24 ore
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leggi «I continui tagli ai bilanci penalizzano l’offerta», di Anna Zavaritt
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«Sugli asili manca una regia», di Cristiano Gori
Il Governo non ha ancora rilanciato un piano di sviluppo nazionale. Proposte: stanziare 250 milioni l’anno per arrivare al 25% di copertura nel 2013. All’estero: alcuni stati fìnanziano gli erogatori dei servizi mentre altri direttamente le famiglie
A 18 mesi dal suo insediamento il Governo Berlusconi non ha sinora elaborato una strategia per i servizi alla prima infanzia e pare propenso a lasciarli al margine della legislatura. Può sembrare anomalo riferirsi all’Esecutivo nazionale in un ambito di abituale responsabilità comunale ma proprio questo è il punto. I Comuni non dispongono degli stanziamenti sufficienti ad assicurare l’auspicato aumento degli asili e- sempre più – neppure a garantire una qualità adeguata a quelli esistenti: se si vuole sostenere il settore l’unica strada è una strategia statale di supporto. Si tratta del cambiamento già avviato in gran parte dei paesi europei, come Spagna, Gran Bretagna e Germania: anche qui i servizi sono tradizionalmente a carico dei Comuni, che oggi non riescono più a rispondere autonomamente alla crescita delle domande e vengono, pertanto, affiancati da un intervento statale. La consapevolezza che il destino dei nidi in Italia dipenderà dalle scelte della politica nazionale, per , è ancora limitata.
Nel 2006 l’allora ministro per la Famiglia Bindi introdusse il «piano nidi 2007-2009», con uno stanziamento statale medio di 149 milioni annui per un triennio. Tutti gli osservatori giudicarono il piano un utile primo passo – per 30 anni lo Stato si era disinteressato della materia – in attesa di una più ambiziosa riforma nazionale. La sua realizzazione sta incrementando l’offerta ma sta pure incontrando evidenti difficoltà, a partire dalla lentezza attuativa, che non sorprendono poiché si tratta di un’attività inedita per lo Stato. Vi sarebbe ora l’opportunità di valorizzare l’esperienza maturata, imparando dagli errori del piano ed elaborando una nuova e più incisiva strategia d’azione pluriennale, da accompagnare con un incremento dei finanziamenti capace di darle sostanza. Il Governo, però , non ha sinora costruito una propria strategia, come mostra l’intervista all’attuale responsabile, il sottosegretario Giovanardi.
All’assenza di uno specifico disegno lo Stato accompagna una politica di bilancio penalizzante per i comuni. Le decisioni di finanza pubblica hanno fatto sì che il contributo per il contenimento della spesa richiesto alle municipalità sia risultato ben superiore a quello di regioni e amministrazione centrale. Poiché il finanziamento pubblico degli asili è oggi in gran parte comunale, le conseguenze sono inevitabili. A livello locale si registrano non solo diffuse difficoltà ad ampliare l’offerta come, si vorrebbe, ma anche crescenti problemi a mantenere gli attuali standard di qualità.
Contemporaneamente il ministro dell’Istruzione Gelmini ha reso possibile per le famiglie anticipare l’iscrizione alle scuole dell’infanzia- cioè le materne – dagli abituali tre anni a due e mezzo (due in montagna e in alcuni piccoli comuni). S’intende in tal modo rispondere alle richieste delle famiglie con figli in età da nido senza potenziare l’offerta di questi ultimi bensì utilizzando gli spazi già disponibili nelle scuole dell’infanzia. Ma chi ha due anni e mezzo richiede molte più attenzioni di chi ne ha cinque mentre così si applicano al primo gli stessi standard di servizio previsti per il secondo; come il numero di bambini per operatore, più elevato di quello assicurato nel nido.
Se questi sono gli aspetti chiave della fase corrente altre azioni propongono spunti per domani. Il ministro per le Pari opportunità Carfagna promuove alcune sperimentazioni riguardanti le tagesmutter, figure ritenute portatrici di significative potenzialità. I risultati saranno da valutare attentamente, a oggi si tratta d’interventi circoscritti localmente e, quindi, senza un impatto diffuso sulla cittadinanza. Il ministro Brunetta destinerà alla costruzione di nuovi nidi presso le amministrazioni pubbliche – nei prossimi dieci anni – parte delle risorse risparmiate grazie al progressivo incremento dell’età pensionabile per le donne impiegate nella Pa. La misura è priva di conseguenze nell’immediato ma potrà produrre, nel tempo, effetti significativi se collocata in una progetto complessivo.
La disamina di quanto compiuto sinora evidenzia la mancanza di una strategia d’azione pluriennale, l’assenza di adeguati stanziamenti e lo scarso coordinamento tra i dicasteri interessati. Poiché il quadro tratteggiato spinge a chiedersi se sia possibile dare una direzione diversa alla legislatura è opportuno analizzare i più noti argomenti contrari.
Primo, una nuova strategia costerebbe troppo. In realtà sarebbe la più economica tra le riforme di welfare necessarie. Se lo Stato iniziasse ora a destinare ogni anno 250 milioni di euro in più rispetto al precedente si arriverebbe a fine legislatura (2013) con un maggiore stanziamento, in confronto a oggi, di un miliardo annuo Gli studi dimostrano che questo finanziamento statale unito al contributo di regioni e imprese eleverebbe il tasso medio nazionale di copertura dall’attuale 16% al 25%, dei bambini. Il confronto tra i 256 milioni annui necessari e gli 8 miliardi di spese previsti dalla Finanziaria mostra chiaramente le proporzioni.
Secondo, bisogna lasciare alle donne la possibilità il scegliere tra lavorare e curare i figli. Il dibattito italiano ha preso una piega distante dalla realtà, come se il tema fosse obbligare tutte le famiglie a utilizzare il nido. Viviamo in un paese in cui il 40% delle famiglie vorrebbe poterlo fare e solo tre Regioni hanno un tasso di copertura superiore al 25% dei bambini. Stiamo semplicemente parlando di assicurare a chi lo desidera la possibilità di ricorrere ai servizi.
Terzo, si scrive piano nazionale ma si legge redistribuzione a favore del Sud. E un’obiezione non esplicitata ma pensata da molti. Non può essere così perché tutti i territori hanno bisogno di maggiori risorse, basti considerare la distanza tra domanda e offerta di asili tuttora esistente in Lombardia e Veneto.
Lo sguardo agli altri paesi europei rivela – come anticipato – uniformità d’intenti. La presenza di una rete di servizi alla prima infanzia per garantire alle famiglie che lo desiderano la possibilità di fruirne è oggi un obiettivo deideologizzato, condiviso da destra e sinistra. Ovunque si attuano strategie nazionali pluriennali, con percorsi di graduale sviluppo monitorati e aggiustati in corso d’opera, senza lasciare che i cambi di maggioranza le interrompano. Dopo le recenti elezioni la Signora Merkel ha cambiato alleati di Govemo – dai Socialdemocratici ai Liberali – e modificato diversi obiettivi ma i nuovi partner hanno concordato di continuare con il piano nidi avviato quando erano all’opposizione. Davld Cameron, leader dei conservatori inglesi, ha annunciato che in caso di probabile vittoria alle imminenti elezioni proseguirà con la strategia per i servizi avviata dal laburisti. Differenti sono, invece, le modalità operative impiegate dai Paesi per raggiungere il medesimo obiettivo.
Si dividono, innanzitutto, sulla scelta tra destinare i finanziamenti statali aggiuntivi a comuni e regioni, affinché amplino l’offerta di propria responsabilità (strategia dell’offerta), e destinare le risorse direttamente alle famiglie, cosicché decidano loro a quali servizi rivolgersi (strategia della domanda).
Condividere l’obiettivo di sviluppo, valorizzare l’esperienza compiuta sinora e aprire un confronto sulle modalità operative: perché non allineiamo l’Italia agli altri paesi europei?
da Il Sole 24 ore
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leggi l’intervista a Rosy Bindi – «Più sostegno ai nuclei con figli», di Fr. Ba.
leggi l’intervista a Carlo Giovanardi – «Nuove misure all’orizzonte», di Francesca Barbieri