L’Italia vive la crisi globale stando da «molti mesi in apnea», scrive il Censis nel suo ultimo Rapporto. Bada soprattutto a riprodurre le basi, al punto da meritarsi la definizione di «società replicante», per «quel suo particolarissimo sviluppo processuale e incrementale» che è il suo «modo di sfuggire all’esistente». Il Censis non rinuncia a guardare all’evoluzione della società nella maniera che gli è congeniale, per sottolinearvi un’attitudine molecolare a metabolizzare il cambiamento, in grado di attutire la forza d’urto degli elementi più traumatici. Ma questa volta, accanto alle grandi continuità, indica la novità della crisi nella «dura, complicata ristrutturazione del settore terziario (la prima nella storia dell’Italia moderna)».
Il grande e variegato arcipelago del terziario non è più la massa gelatinosa capace di assorbire i contraccolpi più violenti del rovescio economico. Al contrario, il vasto invaso che risulta dalla combinazione e dalla sovrapposizione dei molti terziari dei servizi, dell’intermediazione, dei commerci è il territorio più soggetto alla morsa della recessione, quello che offre il fianco a effetti profondi di caduta economica, colpendo lavoratori e mestieri che non hanno un sistema di tutela, affondando imprese e attività, talvolta improvvisate, che non hanno mezzi per reggere a tempi così difficili. Di fronte all’offensiva della crisi, non ci si può più rifugiare nell’espediente di inventare servizi indistinti, a bassa produttività ed efficacia, che il Censis definisce «qualcosisti», per rimarcarne l’inadeguatezza e la precarietà.
Ora, se è il terziario il fronte più esposto, dove occorre intervenire per elevarne le forme d’impresa, la produttività e la qualità professionale, si comprende perché con la crisi la «leadership dello sviluppo» torni a essere caricata sulle spalle del sistema delle imprese industriali. Ad onta del minor peso sul prodotto interno lordo, l’industria resta la parte più moderna di un Paese che deve alla manifattura se resta agganciato all’economia internazionale. Ma forse il Censis pecca un po’ d’ottimismo quando sembra dare per scontato che alla fine sarà ancora l’industria il pezzo d’Italia a cavarsela meglio. Chi vive oggi la realtà delle fabbriche del Nord, a Torino come nel Nord Est, sa bene quanto sarà difficile resistere a lungo, se i numeri del 2010 saranno quelli che si prevedono, tali da mettere seriamente alla prova la continuità delle imprese e dell’occupazione.
Per questo, probabilmente, nel mondo delle rappresentanze di categoria balza all’evidenza la spinta a tornare alla «difesa in presa diretta» degli interessi reali, dopo anni trascorsi sulla ribalta politica e mediatica. Le assemblee e i luoghi d’incontro dell’imprenditorialità diffusa sono pervasi da una richiesta d’intervento che non può essere evasa dai discorsi generali sulla natura della crisi e della possibile ripresa. Si annida qui un potenziale focolaio di contrasto con la politica che non può essere trascurato.
La Stampa 05.12.09