La politica sembra essersi dimenticata di sette milioni di operai. Il nuovo autunno caldo: La classe invisibile alla ricerca di una voce. Perfino a molti sindacalisti non sembra un argomento su cui insistere; temono, a volte con ragione, di non essere più votati. Da parte loro le scienze economiche e sociali si sono impegnate soprattutto a scrutare l´avvento del post-industriale, o meglio della società della conoscenza, quel luogo radioso dove più nessuno si sporca le mani nè si rompe la schiena dalla fatica perché tutte le merci sono prodotte dalle macchine. Oppure da qualcuno in Cina o in India che anche se guadagna quattro euro al giorno e lavora settanta ore la settimana deve dir grazie, perché prima – ci assicurano – stava peggio. Pure ai narratori ed ai registi la classe che doveva andare in paradiso da tempo non interessa più. Rende maggiormente, anche sotto il rispettabile profilo della fama, occuparsi di crisi: non di quella economica, bensì degli adolescenti, dei quarantenni, delle famiglie di città o degli amori di provincia.
Di operai parla abbastanza spesso la TV. Quasi ogni giorno ci informa che qualcuno è morto cadendo dal tetto o calandosi in una cisterna o venendo travolto da un carrello mentre lavorava sui binari. Un po´ più di rado ci informa che tot persone sono decedute perché hanno respirato amianto o altre sostanze nocive per decenni. Ma parla di questi come fossero sgradevoli eventi individuali, anziché elementi costitutivi della vita di tutti coloro che fanno parte, lo gradiscano o no, di una comunità di destino – che è il significato antico e perenne di classe sociale.
Eppure gli operai sono ancora tanti. Più o meno sette milioni, circa la metà nel settore manifatturiero e gli altri sparsi tra trasporti, costruzioni, industrie della conservazione, agricoltura e servizi vari. Nemmeno in un supermercato, quintessenza del terziario, i prodotti si collocano da sé negli scaffali, né le camere si rifanno da sole in un hotel. Quel che accomuna questa massa di persone, legandole materialmente a un destino collettivo, sono una serie di situazioni che basterebbero a riempire l´agenda politica di qualsiasi forza riuscisse ancora a vederle. In termini reali, le loro retribuzioni sono quasi ferme da oltre dieci anni, ovvero sono aumentate in misura minima rispetto agli altri paesi della Ue a 15. In rapporto al Pil, hanno perso in vent´anni tra 8 e 10 punti percentuali rispetto alle rendite e altri redditi da capitale. Si tratta di decine di miliardi di euro l´anno che sono andati ad altre classi sociali. A forza di riforme del sistema previdenziale fondate, più che sui bilanci effettivi dell´Inps o sull´andamento reale del rapporto tra attivi e inattivi, sull´accusa di ostinarsi a vivere più a lungo, vanno incontro a pensioni da poveri. Non bastasse, adesso la crisi ha posto questa massa di persone, grazie anche alle riforme più che decennali del mercato del lavoro, dinanzi a un aspro scenario: molti lavoratori che contavano su un´occupazione stabile l´hanno persa o stanno per perderla. Molti disoccupati non troveranno lavoro per anni. Una quota rilevante di essi non lo troverà mai più.
Le immagini degli operai che protestano, in forme nuove o tradizionali che siano, se uno guarda bene, hanno nello sfondo queste situazioni. Comuni a tutti loro. Se un politico vi dice che le classi sociali non esistono più, suggeritegli cortesemente di cambiare mestiere.
La Repubblica 24.11.09
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L’autunno caldo dei nuovi operai , di Paolo Griseri
Salgono sui tetti e sulle gru, si incatenano ai monumenti per far parlare della loro lotta Così le tute blu di oggi cercano di far conoscere le proprie ragioni e difendere il posto di lavoro. Dalla Lombardia alla Sardegna la mobilitazione cresce e sindacalisti e industriali temono che le proteste si allarghino con il diminuire dell’occupazione. Nei primi mesi del 2009 l’Italia ha bruciato 200 mila posti di lavoro interinale. Le ore di cassa integrazione sono esplose aumentando del 322 per cento nel confronto tra ottobre 2009 e lo stesso mese del 2008. La crisi morde chi ha il posto fisso e, ancora di più, chi era già precario ai tempi delle vacche grasse. Il peggio, per l’occupazione, deve ancora venire: «Gli ordini riprendono ma la mazzata non è ancora arrivata in fondo alla catena della produzione», spiegano sindacalisti e industriali. Massimo Merlo, 54 anni, è stato uno dei primi cinque a salire in Italia. In fondo il nuovo autunno caldo è cominciato con il suo gesto, sulla piattaforma della gru della Innse a Milano. Con l’Italia che seguiva le trattative sotto gli ombrelloni di agosto e un gruppo di tute blu sospese nel vuoto che difendevano i macchinari della loro fabbrica in vendita: «Quel che mi fa più arrabbiare è quando voi dei giornali scrivete che lo abbiamo fatto per disperazione. Noi lo abbiamo fatto per calcolo. Sapevamo perfettamente che avremo potuto vincere se avessero bloccato il trasferimento delle macchine. E così è stato». Oggi Merlo è chiamato spesso a fare la scuola guida agli operai di altre fabbriche in difficoltà: «Ma io dico sempre: non basta salire sul tetto per essere sicuri di aver vinto. Dipende dai casi. La regola principale è: mai salire senza aver deciso bene a quali condizioni scenderai». Per Massimo e ai suoi compagni di lavoro la lotta ha pagato. Dal 12 ottobre il gruppo Camozzi ha acquistato gli impianti e ha assunto tutti i 41 operai ex Innse. A Termini Imerese e ad Arese, i due stabilimenti del gruppo Fiat che stanno per chiudere la produzione, le possibilità di farcela sembrano scarse. «Siamo in una situazione difficile – spiega Maurizio Calà, segretario della Cgil di Palermo – e quel che è peggio è che ancora una volta il Sud è l’anello debole della catena. Non parlo solo della Fiat. La Fincantieri è nella stessa situazione. L’auto e le costruzioni navali, due delle principali attività industriali della nostra area, potrebbero mettere in cassa migliaia di persone». Con effetti a catena: «Per molto giorni – spiega Calà – davanti alla Prefettura di Palermo abbiamo avuto il presidio dei vigilantes privati. Come i dipendenti delle aziende di pulizia, sono i primi a sentire la crisi. Se un’azienda va male risparmia su quelle voci». A Termini Imerese i dipendenti hanno occupato il Municipio per ottenere un incontro sul futuro del loro stabilimento. Ma anche a Nord le prospettive non sono tranquillizzanti. Ad Arese i dipendenti Fiat rimasti sono un migliaio. Alla fine del Novecento erano 20.000. Corrado Delle Donne, storico leader dei Cobas dell’Alfa Romeo, è uno di coloro che ieri mattina ha tenuto «l’assemblea della fabbrica sull’autostrada ». Spiega che i reduci del marchio del Biscione non si rassegnano: «Vogliono trasferirci a Torino perché l’area della fabbrica serve per l’Expo del 2015». Oggi andranno a presidiare la sede della Provincia di Milano. Susanna Camusso, segretaria nazionale della Cgil, negli anni Ottanta è stata responsabile della Fiom proprio ad Arese. In corso d’Italia si occupa delle crisi più acute. In questo novembre 2009 si chiamano Fiat, Alcoa, Eutelia. Ieri i dipendenti Alcoa di Portovesme hanno bloccato i cancelli della centrale Enel: «Una situazione che ci è sfuggita di mano», ammettevano nel pomeriggio i sindacalisti sardi. Ma un sindacato può controllare, e come, le nuove forme di protesta?: «Da quando in Europa si è diffusa la pratica di sequestrare i dirigenti, questa è la domanda che mi è stata rivolta più spesso», dice ironica Camusso. Che aggiunge subito: «Come si vede, in Italia non è capitato». Capita invece che le forme di lotta siano molto diverse da quelle dell’autunno caldo del ’69: «Certo. Per diversi motivi. Il principale è che questa volta si protesta per resistere. Perché sappiamo tutti che un posto di lavoro distrutto oggi non si recupererà quando la crisi sarà superata. Bisogna sopravvivere nella bufera per poter vivere dopo». Ma c’è un secondo motivo: «La maggior parte degli operai oggi lavora fuori dalla grande industria. Quando i cortei di fabbriche con decine di migliaia di operai uscivano in strada non c’era bisogno di altro perché se ne parlasse. Se chi lavora in un’azienda con 40 dipendenti non sale sul tetto, non se ne accorge nessuno». I nuovi operai che saliranno sui tetti rischiano di essere parecchi. Nella sua ultima analisi congiunturale il Centro studi di Confidustria avverte che «è certamente positiva l’azione della cassa integrazione nel salvaguardare i posti di lavoro, ma se la contrazione dell’attività si rivelerà duratura, tale strumento potrebbe non essere più adeguato». Nel terzo trimestre del 2009 la cassa ha salvato 240 mila posti di lavoro. I calcoli della Cgil dicono che nei primi dieci mesi dell’anno la cassa ordinaria e straordinaria ha coinvolto quasi un milione di operai e impiegati. Ma nel 2010 la copertura degli ammortizzatori sociali potrebbe finire e così, se l’andamento del 2010 fosse simile a quello dell’anno appena concluso, 450 mila lavoratori dipendenti delle aziende private dovrebbero rimane a casa un mese su due. Situazione difficile che molti prevedono possa aggravarsi ancora. Le forme di lotta estreme a difesa del posto di lavoro potrebbero aumentare. Dice Massimo Merlo: «Non si lotta per disperazione. Quando sei disperato ha già perso». Eppure per Adriano Serafino, uno dei leader della Fim torinese durante le lotte alla Fiat dei primi anni Settanta, a differenza di quarant’anni fa proprio quello della disperazione rischia di essere un tratto distintivo del nuovo autunno caldo: «Purtroppo sarà caldo perché i lavoratori hanno la febbre, la grande paura di perdere il posto. Nel 1969 si lottava per migliorare, perché erano arrivati ragazzi giovani nelle grandi fabbriche, perché era andata in linea la generazione della scuola media dell’obbligo. Si facevano i cortei per ottenere nuovi diritti, non per sopravvivere».
La Repubblica 24.11.09