La crisi del centrodestra, che si trascinava da settimane, da ieri s’è di molto aggravata. Da politica che era, è diventata istituzionale, con il presidente del Senato che invoca le elezioni anticipate come antidoto al logoramento della maggioranza, e accusa, pur senza nominarlo, il presidente della Camera, di essere responsabile di questo stesso logoramento, che impedisce al governo di rispettare gli impegni assunti con gli elettori.
Stavolta l’abituale soavità del senatore Schifani non è bastata ad addolcire la sostanza, durissima, del suo intervento, e la sorpresa generale con cui è stato accolto. Infatti, anche se come tutto finisce di tanto in tanto nel frullatore del dibattito politico quotidiano, la materia dello scioglimento delle Camere è di stretta competenza del Capo dello Stato ed è solitamente tabù per i presidenti delle Assemblee.
Ai quali tocca semmai maggiore prudenza, legata alla necessità di rappresentare la volontà di tutti i parlamentari, e non solo delle maggioranze che li hanno eletti, quando il momento di decidere la fine della legislatura si presenta veramente. La Costituzione (articolo 88) stabilisce che il Presidente della Repubblica decreti lo scioglimento, «sentiti i presidenti delle Camere»: ed è ovvio che il loro convincimento vada espresso solo tra i muri del Quirinale…
Ecco perché l’iniziativa di Schifani, oltre a costituire una novità assoluta, è del tutto irrituale. Che negli ultimi anni, e nell’epoca del maggioritario, i ruoli dei presidenti delle Camere abbiano subito una drastica trasformazione, non ci sono dubbi. E altrettanto, che Fini abbia spesso esorbitato, muovendosi in modo assai personale e non riuscendo a spogliarsi del suo abito di leader politico, come avrebbe richiesto il fatto di ricoprire la terza carica dello Stato. Ma proprio per questo, ci si sarebbe aspettato dalla seconda carica un di più di compostezza, di riservatezza istituzionale, di silenzio, da contrapporre al confuso vociare in cui il presidente della Camera s’era fatto risucchiare.
Non c’è neppure bisogno di ricordare che, sebbene formalmente sullo stesso piano, il presidente del Senato siede in realtà su un gradino un filino più alto del suo dirimpettaio di Montecitorio. E’ a lui, infatti, che tocca il delicato compito di supplenza in caso di assenza o di impedimento del Capo dello Stato. Ed è ancora a lui – anche se non c’è nulla che lo imponga – che il Quirinale si rivolge per primo in caso di crisi, se si richiede un mandato esplorativo o un ulteriore tentativo di chiarimento. Inoltre, non è dato al presidente del Senato (e neppure a quello della Camera per la verità) esprimere valutazioni politiche che non derivino da dirette e formali constatazioni dell’andamento dei lavori parlamentari.
E insomma, quando Schifani parla di mancanza di compattezza della maggioranza, viene da chiedersi in base a cosa lo faccia, dal momento che in Senato il governo ha potuto fin qui procedere abbastanza tranquillamente, superando difficoltà e incognite che si presentano normalmente nella vita parlamentare, e portando lo stesso presidente a esprimere, anche di recente, il proprio compiacimento.
Schifani, poi, s’è dichiarato insoddisfatto della scarsa produttività di riforme da parte del Parlamento. Ma non è in Senato che per la prima volta s’è verificata la convergenza tra maggioranza e opposizione sul federalismo fiscale? E non è il Senato che è stato scelto, dopo la caduta del lodo Alfano – nell’ora più difficile dei rapporti tra politica e giustizia, e tra governo e magistratura -, per avviare il percorso del disegno di legge sul «processo breve»?
Davvero non si capisce cosa abbia spinto Schifani a un così brusco cambio di rotta. Stando a voci mediocri che circolavano nei corridoi parlamentari, l’uscita della seconda carica dello Stato sarebbe dovuta a un diktat di Berlusconi: che tace, non potendo parlare in prima persona, per non certificare la dissoluzione della sua maggioranza. Insinuazioni che hanno dell’incredibile, conoscendo il geloso attaccamento del presidente del Senato alla propria autonomia.
No, c’è da scommetterci: dietro Schifani c’è solo Schifani. E se ha deciso di rompere la corteccia istituzionale che lo ha vincolato finora, e compiere un gesto così grave, non è stato certo solo per lanciare un avvertimento al suo irrequieto vicino di Montecitorio. C’è dell’altro e c’è di più: rompendo il riserbo sulle elezioni anticipate, Schifani ha alzato la mira su Napolitano.
La Stampa 18.11.09
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La minaccia di fine impero, di MASSIMO GIANNINI
In una “normale” democrazia, bipolare e liberale, le parole di Renato Schifani suonerebbero come un’ovvietà. La maggioranza degli eletti è garante del patto programmatico sottoscritto con gli elettori attraverso il voto. Se quella garanzia salta, la parola torna al popolo sovrano. Nell’autocrazia berlusconiana, plebiscitaria e illiberale, questi concetti elementari diventano un’enormità.
Probabilmente è ancora presto per considerare il discorso del presidente del Senato come un “certificato di morte” del governo. Più verosimilmente quel testo riflette un male incurabile di questo centrodestra, ma non ancora la sua crisi finale. Va catalogato sotto la voce “minacce”. Minacce alle istituzioni “nemiche”: il capo dello Stato non si illuda, in caso di caduta di questo governo, di ripercorrere le orme di Scalfaro e di evitare le elezioni anticipate cercando altre maggioranze. Minacce alle istituzioni “amiche”: Gianfranco Fini non si illuda, la sua idea di una destra laica, istituzionale, repubblicana, cioè “alta” e “altra” rispetto a quella da bassa macelleria costituzionale incarnata dal Cavaliere, non avrà diritto di cittadinanza fuori dal berlusconismo. Minacce alle opposizioni “interne”: tutti coloro che, dentro la coalizione, sono tentati di seguire il presidente della Camera sui paletti alla legge-vergogna del processo breve, sulla bioetica, sull’immigrazione, magari anche sulla sfiducia a Cosentino, non avranno più un posto dove sedersi in Parlamento, in una quarta legislatura berlusconiana. Minacce alle opposizioni “esterne”: il Pd non coltivi ambizioni neo-proporzionaliste, in uno schieramento che aggreghi tutti, dall’Udc all’Idv, perché in una nuova campagna elettorale il premier asfalterebbe qualunque “Comitato di liberazione nazionale”.
C’è tutto questo, nel monito che il Cavaliere ha lanciato per interposto Schifani. Ma sarebbe altrettanto sbagliato non leggere, in quelle parole, anche qualcosa di più serio e più grave. Per due ragioni. La prima ragione è tattica. Il ricatto delle elezioni anticipate, da tempo ventilato nei corridoi e adesso gridato dalla seconda carica dello Stato, rischia di non essere “un’arma fine di mondo”, ma “una freccia spuntata”. Intanto perché, a dispetto delle sue certezze ufficiali, il premier non è più così sicuro di vincere le elezioni. E poi perché, in caso di scioglimento anticipato delle Camere, svanirebbe per lui qualunque possibilità di costruirsi l’ennesimo “scudo” legislativo contro i processi Mills e diritti tv Mediaset. E lui di quella “protezione” ha un bisogno vitale. Anche a costo di far ingoiare al Parlamento un’altra dose di “ghedinate”. Anche a costo di far riesplodere un conflitto istituzionale con il Quirinale e con la Consulta.
La seconda ragione è strategica. Se dopo appena venti mesi dal clamoroso trionfo del 13 aprile 2008 questa maggioranza è chiamata ogni giorno ad interrogarsi sulla sua sopravvivenza e ad esorcizzare lo spettro delle elezioni anticipate, vuol dire che un destino sta per compiersi. Nell’avvertimento del presidente del Senato di oggi si sente un’eco sinistra di quello che lanciò l’allora presidente della Camera nell’autunno del 2007. All’epoca Fausto Bertinotti definì Prodi, capo del governo unionista, “il più grande poeta morente”, rubando la celebre definizione che Ennio Flaiano usò per Cardarelli. Per il Berlusconi attuale vale la stessa immagine. Anche il Cavaliere, ormai, appare come “il più grande poeta morente”. Da mesi ha smesso di governare l’Italia. Da settimane mena solo fendenti contro alleati e avversari. Da giorni non riesce più neanche a parlare al Paese.
Sabato scorso il suo esegeta più fine, Giuliano Ferrara, si chiedeva sul Foglio: “L’avvenire del berlusconismo è forse alle nostre spalle?”. La risposta è sì. Assisteremo ad altre scosse. Magari vedremo altri “predellini”. Ma il Cavaliere, ormai, potrà solo sopravvivere a se stesso.
La Repubblica 18.11.09
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Le sirene delle elezioni anticipate tentano il Cavaliere, anche se le incognite sono molte, di Fulvio Lo Cicero
Napolitano potrebbe non sciogliere le Camere e individuare una nuova maggioranza, in grado di modificare la legge elettorale. Schifani favorevole al ricorso alle urne.
Berlusconi è in silenzio stampa, come le squadre di calcio alla quarta sconfitta consecutiva. Da due settimane non pronuncia parola (a parte le barzellette raccontate alla sessione della Fao) e, per uno come lui, deve essere il massimo dell’afflizione. Al suo posto, però, parlano “Il Giornale” e “Libero”. Insomma, il premier non sta proprio zitto ma affida ai suoi direttori i segnali più opportuni da lanciare.
Oggi il quotidiano diretto da Vittorio Feltri se la prende ancora una volta con Gianfranco Fini: “Ecco il doppio gioco di Fini” titola e spiega nel sommario: “Come presidente della Camera fa il superpartes e mette i bastoni tra le ruote alla maggioranza. Ma dietro le quinte tira i fili su governatori e testamento biologico. E fa politica contro il suo partito”. L’analisi della difficile situazione nel centro-destra è affidata al condirettore Alessandro Sallusti, sempre più presente nei dibattiti televisivi, secondo il quale «il presidente della Camera sfrutta il ruolo di arbitro per ostacolare l’azione del governo e cambiare la linea del Pdl. O si dimette e torna a fare politica o applica le regole del gioco: tutte, non solo quelle che piacciono al Quirinale e al Pd».
“Libero”, il quotidiano della famiglia Angelucci, diretto da Maurizio Belpietro, non è da meno ma sceglie un altro argomento: le elezioni anticipate. Scrive il direttore: «Il presidente del Consiglio deve rompere gli indugi e chiedere le elezioni politiche. I suoi nemici e presunti amici lo stanno rosolando a fuoco lento…».
Una maggioranza lacerata. Schifani: “Meglio votare”
Tutte immagini di una coalizione oramai sfilacciata e di un conflitto fra finiani e berlusconiani che potrebbe portare alla fine anticipata della legislatura. Se solo si fa un pensiero ai sarcasmi dei berlusconiani per le divisioni della maggioranza che sosteneva il secondo Governo Prodi, ci sarebbe da ridere. Ma le contraddizioni palesi del progetto derivato dal “discorso del predellino”, quando Berlusconi annunciò la fondazione di un unico partito conservatore, stanno emergendo con forza. Il partito che serve al Cavaliere non è quello esattamente pensato da Fini e dal suo think tank. Il Presidente della Camera ha come punto di riferimento la “politica”, cioè la produzione di idee e di progetti per gestire i sempre più complessi processi sociali e dunque appare logico lo scontro con un premier che, da sempre interpreta la politica innanzitutto come modo per risolvere le sue grane giudiziarie, sottomettendo gli interessi del Paese a quelli suoi personali.
Oggi lo stesso Presidente del Senato Schifani si è espresso a favore del ricorso alle urne, evidentemente manifestando il pensiero del suo leader: «Compito dell’opposizione è esercitare il proprio ruolo di critica e di proposta alternativa, in coerenza con il proprio mandato elettorale. Compito della maggioranza è garantire che in Parlamento il programma del Governo trovi la compattezza degli eletti per approvarlo. Se questa compattezza viene meno, il risultato è il non rispetto del patto elettorale. Se ciò si verificasse, giudice ultimo non può che essere, attraverso nuove elezioni, il corpo elettorale».
La resa dei conti
Quella che probabilmente si è aperta oggi, con il pesante attacco di Feltri a Fini, è l’inizio di una resa dei conti, da cui deriveranno conseguenze decisive per l’attuale legislatura. Il direttore de “Il Giornale” chiede le dimissioni del Presidente della Camera, come nota Silvana Mura, deputato Idv e braccio destro di Di Pietro: «Nel partito di maggioranza relativa è in corso una faida che ogni giorno appare sempre più evidente, che coinvolge le istituzioni e paralizza il governo». Quanto sia profonda quella che la deputata dipietrista chiama “faida” lo dimostra il fatto che l’Idv ha presentato una mozione di sfiducia nei confronti di Nicola Cosentino, che potrebbe raccogliere i voti dell’ala finiana del Pdl e fors’anche della Lega. Italo Bocchino si è detto possibilista: «Valuteremo, se ci sarà una mozione di sfiducia da parte dell’opposizione. Noi riteniamo sarebbe opportuno un passo indietro da parte del sottosegretario». Insomma, un pezzo importante del Pdl che vota con il partito considerato più radicale dell’opposizione. Nello stesso tempo, personalità di spicco come l’ex legale del Cavaliere, Gaetano Pecorella, bocciano senza appello quelle che sempre Italo Bocchino ha definito le “ghedinate”, cioè le funamboliche trovate normative del principale consigliere giuridico del principe.
La rottura
Secondo alcuni, il pervicace silenzio berlusconiano preluderebbe alla ricerca di un punto di rottura, di un escamotage per dire: “Non posso andare avanti così, meglio le urne”. Il progetto – non escluso oggi nemmeno dal fido Gianni Letta – avrebbe il pregio di un’extrema ratio per il Cavaliere, un nuovo bagno elettorale, suo abituale lavacro, con le televisioni del magnate scatenate nel diffondere informazioni propagandistiche, molte delle quali false.
Il premier, in altri termini, constatata la rottura della maggioranza uscita vincitrice dalle elezioni dell’aprile 2008, chiederebbe, quale leader del centro-destra, al Capo dello Stato, lo scioglimento delle Camere e l’indizione di nuove elezioni. Molti dei suoi collaboratori lo spingerebbero ad adottare subito questa soluzione, anche se potrebbe essere pagata con una scissione dell’ala ex aennina. Ma le incognite sono notevolissime. Difficile credere che Napolitano scioglierebbe le Camere soltanto perché lo vuole Silvio Berlusconi, anzi. Oggi il Presidente della Repubblica, assai significativamente, ha ribadito che «la Repubblica parlamentare resta per l’Italia una soluzione valida, anche se può essere migliorata», ribadendo che «sono presidente di una Repubblica parlamentare e certamente non farò propaganda per un’altra Repubblica». Questo significa, come ovvio, che ad una crisi dell’attuale maggioranza potrebbe seguire la formazione di un Governo, magari tecnico, che avvii le riforme, compresa quella della legge elettorale, togliendo – come vorrebbero Casini e i molti centristi presenti in Parlamento, non escludendo però a priori i democratici dopo il definitivo abbandono del progetto veltroniano – il premio di maggioranza. A quel punto, Berlusconi e il berlusconismo sarebbero definitivamente archiviati.
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