Dubbi sull’adeguatezza di questo governo ad affrontare i problemi del Paese sorgono da più parti. Basti pensare alle dichiarazioni sulla crisi economica: «La crisi non c’è… contrordine c’è anche qui,ma bisogna pensare positivo (chi non lo fa è nemico dell’Italia)… la via italiana per uscire dalla crisi è quella psicologica». Per non parlare delle dichiarazioni sulla pandemia da influenza A/H1N1: «La situazione è sotto controllo… è sotto controllo, ma l’Italia è il Paese più colpito d’Europa». Ancora non è stato detto che pensando positivo non ci si ammalerà. Probabilmente ci stanno pensando. Ma oltre alle dichiarazioni quello che sconcerta è il metodo di governo. Non si governa “contro” parti dello Stato e della pubblica amministrazione ma “con” le varie realtà. Si fanno o si annunciano leggi contro i pubblici dipendenti, contro i medici, contro i magistrati, contro i docenti della scuola e dell’università, contro i ricercatori. Nessuna delle comunità su cui si legifera viene coinvolta. Queste infatti vengono viste come controparte dell’azione del Governo che oggi sempre di più si sostituisce impropriamente all’azione del Parlamento. Si tende alla vessazione e al controllo centralistico, non a motivare al lavoro e a responsabilizzare. Invece di uscire dalle secche di un opportunismo diffuso, dell’assenza di prospettive alte, della mancanza di coinvolgimento e del progressivo affievolirsi della passione dei vari soggetti, si preferisce attaccare a testa bassa le varie comunità. L’ultimo atto, per ora, di questa nefasta rappresentazione è il disegno di legge di riforma dell’università pubblica (non vengono infatti toccate le università private, che pure ricevono finanziamenti dallo Stato). Dopo aver sparato nel mucchio sugli universitari e sull’università pubblica, si mette in cantiere un disegno di legge partorito senza alcun confronto con la comunità accademica. Dopo aver strillato contro l’autoreferenzialità dell’accademia, il ministero procede in modo autoreferenziale. Nel disegno di legge si mortifica l’autonomia e quindi la responsabilità delle pubbliche università, non si dà spazio alla pluralità delle figure professionali presenti negli atenei (per esempio, nel Cda, dove almeno il 40% non deve appartenere ai ruoli dell’ateneo, sembra sparire la rappresentanza del personale tecnico-amministrativo), si prevede un’ampia delega al Governo su argomenti cruciali, si ipertrofizza l’influenza del ministero dell’economia e delle finanze, si disegna un percorso di reclutamento che di fatto bloccherà per vari anni il ricambio generazionale, si dà (giustamente) ampio risalto al ruolo che dovrebbe svolgere l’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) che però non si sa quando sarà operativa. E tutto senza “ulteriori oneri per lo Stato”. Se questo disegno di legge andasse in porto così com’è sarebbe un disastro.
L’Unità, 10 novembre 2009
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