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“I giovani e l’Unità d’Italia dimenticata”, di Paolo Di Stefano

Non sono bastate le polemiche, gli appelli, i richiami ufficiali. La gran parte degli italiani non sa che nel 2011 ricorre il centocinquan­tesimo dell’Unità d’Italia. Al riguardo, i giovani tra i 18 e i 24 anni sono legger­mente più informati degli altri: potere di Internet? Forse. Però se si chiede lo­ro di esprimere un’opinione sul senso di quell’evento storico, quasi la metà è d’accordo nel ritenerlo poco o per nul­la attuale. Ancora meno sono, a diffe­renza degli adulti, i giovani che se ne sentono «coinvolti personalmente». Sono curiosamente i ventenni a mostra­re invece maggiore preoccupazione economica e ad auspicare che l’Unità venga celebrata limitando al minimo le spese. Maggior senso di responsabilità rispetto ai cittadini di età matura o mi­nore interesse? Chi può dirlo, forse semplicemente più indifferenza.

La fiducia nella scuola è scarsa (lo si sapeva), tanto che solo il 30 per cento degli italiani considera utili i «progetti didattici» sull’argomento elaborati con i professori. E uno su dieci (non è po­co), con punte più alte tra i giovani, fa­rebbe volentieri a meno di qualunque tipo di celebrazione. Le iniziative cultu­rali di largo consumo allettano più gli anziani che i giovani (quasi il 25 per cento), ai quali non dispiacerebbe affi­darsi a grandi eventi spettacolari maga­ri di richiamo internazionale (17 per cento): concerti, manifestazioni sporti­ve, feste, occasioni di incontro e di scambio. Non si parli di fiction tv (4,3), semmai di monumenti-simbolo (8,7) da lasciare in eredità ai posteri.

L’Unità d’Italia, insomma, divide in due il Paese. Non in modo cruento, ma lo divide: le giovani generazioni se ne sentono distanti e poco motivate. Non tutto, però, è perduto, almeno a giudi­care dalle interviste (disponibili su You­Tube) che il Comitato Italia 150 ha fat­to a un gruppo di studenti piemontesi delle scuole superiori, chiamati a dire la loro sul centocinquantesimo, a espri­mere consigli e auspici. Ascoltare per credere. In genere il 2011 viene percepi­to come un’occasione: per migliorare i rapporti Nord-Sud, per offrire all’este­ro un’immagine che cancelli i soliti cli­ché italioti, per migliorare l’integrazio­ne degli immigrati, per favorire gli scambi generazionali, per conoscere meglio la Costituzione, per aprirsi al­l’Europa, eccetera eccetera. In definiti­va, dal campione intervistato si coglie facilmente un’insoddisfazione diffusa per lo status quo: sul piano economico, socio politico, culturale. Tutto va bene, tranne insistere sull’esistente.

Valentina, terzo anno dell’Istituto tecnico Mossotti di Novara, si dice pre­occupata dalle differenze persistenti tra Nord e Sud e guarda all’estero: «L’Italia è un Paese conservatore, a dif­ferenza per esempio dell’Inghilterra: per noi è più difficile pensare a uno Sta­to più moderno». La sua compagna Fe­derica («L’Italia non è ancora uno Stato unico») si rammarica nel vedere il no­stro popolo sbeffeggiato all’estero, do­ve ci considerano «casinisti e rumoro­si »: «Più che l’Italia d’oggi, viene ap­prezzato il nostro passato, arte e sto­ria ». Sono loro le prime a cogliere il ba­ratro generazionale: «Gli adulti — dico­no — sono più chiusi agli stranieri, mentre noi siamo ormai quotidiana­mente abituati all’integrazione, a scuo­la abbiamo a che fare più con immigra­ti che con italiani».

Al Convitto Umberto I di Torino (li­ceo classico e scientifico) i ragazzi che rispondono sulle aspettative della ricor­renza, parlano di «nuovo inizio», come se il secolo e mezzo trascorso fosse ser­vito a ben poco e sia bene ripartire da zero. C’è chi individua nel 2011 una tap­pa importante per «ritrovare la nostra unità». Ritrovare. E i più si augurano di non rimanere emarginati dal mondo dei «grandi». Tema ricorrente: chiedo­no di venire coinvolti il più possibile. Come? Niente congressi, niente semi­nari o simposi, niente mostre storiche, niente gadget. Musica, teatro, cinema, videoclip, sport e feste, incontri che sia­no capaci di divertire e magari di acco­munare anche al di là delle frontiere: «Qualcosa che ci unisca» è l’augurio più ricorrente, «magari con scambi tra città lontane». E, perché no, aprendo anche i confini internazionali. Si passa dai piccoli eventi locali ai mega eventi nelle grandi città. La parolina «evento» è sulla bocca di (quasi) tutti. Pochi han­no voglia di tornare a riflettere sulla storia e sui personaggi-simbolo, tanto meno in sedi istituzionali: «Niente di noioso, please, e più spazio ai giova­ni ».

Altra questione, quella posta a suo tempo da Massimo d’Azeglio: fatta l’Ita­lia, bisogna ancora fare gli italiani? No­nostante l’esibita fierezza di dirsi italia­ni, le risposte riflettono i dibattiti politi­ci di questi tempi: «Finché si pensa so­lo alla propria regione, non si può par­lare di un Paese davvero unitario». Op­pure: «Le divisioni sono ancora tantis­sime ». Oppure: «Tra Nord e Sud c’è una differente concezione di nazione e di società». Oppure: «Siamo più con­centrati sugli aspetti economico-politi­ci del nostro Paese, mentre dovremmo puntare sull’orgoglio culturale che ci accomuna». Oppure: «Il senso di appar­tenenza è più regionale che naziona­le ». Oppure: «Siamo ancora pieni di pregiudizi reciproci». Dulcis in fundo: «Più che pensare all’Italia dovremmo pensare all’Europa».

Distinguere tra i luoghi comuni da talk show e le reali preoccupazioni non è facile, ma intanto i temi sono questi, c’è poco da fare, e virano sul pessimi­smo. Specie quando il tutto viene pro­iettato nel futuro, la vera inquietudine degli intervistati: la nebulosa è l’avveni­re ben più che l’interrogazione storica e lo sguardo all’indietro. Lo conferma Marina Bertiglia, ex provveditore agli Studi di Torino, che per il Comitato Ita­lia 150 è da un anno responsabile della formazione didattica e come tale si oc­cupa di elaborare i progetti scolastici in vista del 2011: «I ragazzi sono sensi­bili alla storia solo se la storia si tradu­ce in fatti concreti che abbiano effetti nell’oggi e nel domani. Rifiutano la ce­lebrazione come tale: chiedono di esse­re coinvolti emotivamente, di avere i lo­ro spazi e di capire meglio come sarà il loro futuro».

Fosse facile, verrebbe da replicare, in un Paese per vecchi, come il nostro: «Nell’ottobre 2008 — ricorda Bertiglia — abbiamo promosso un concorso per decorare la recinzione di un cantiere, chiedendo alle scuole di preparare testi o immagini sul tema ‘ieri oggi doma­ni’ ». Risultato? «Le immagini puntava­no sui personaggi famosi, da Mike Bon­giorno agli Agnelli, e sui prodotti del made in Italy». E i testi? «Sulla sfiducia nel presente e sull’incertezza del futu­ro ». Si può anche decidere tranquilla­mente di ignorare le insoddisfazioni, le lacune e le attese dei nostri giovani, ma in occasione del centocinquantesimo sarebbe un errore più grave del solito.

Il Corriere della Sera, 10 novembre 2009