ROMA – L’ultima frontiera della precarietà si chiama “partita Iva”. Altro che indice dell’indomabile vitalità imprenditoriale. Questa è tutta un’altra storia che non riguarda neanche un po’ le seducenti formule del capitalismo personale. Qui si parla di cocopro: collaboratori a progetto costretti a diventare titolari di “partita Iva” per non perdere il lavoro, anche se precario.
Difficile stimare quanti siano i lavoratori in transizione verso l’imprenditoria forzata. Nessuno l’ha fatto, ma non ci si sbaglia se si ipotizzano decine di migliaia di persone. Si vedrà meglio quando l’Inps renderà pubblici i numeri sui nuovi iscritti al Fondo Gestione Separata. Lì, dati del 2007, le “partite Iva” di professionisti non iscritti ad albi o associazioni erano circa 250 mila, 30 mila in più in un solo anno. Reddito medio intorno ai 15 mila euro, poco più di mille al mese. Dai web designer ai grafici pubblicitari; dai redattori delle grandi case editrici ai lobbysti, fino all’antica, tradizionale, segretaria, imprenditrice di se stessa però. Tutti rigorosamente a mono-committenza, cioè fornitori di una sola azienda. Insomma, false “partite iva”.
Di certo questo è un altro capitolo della via italiana alla flessibilità, in cui con il concorso della Grande Recessione, l’obiettivo principale di molte aziende è quello di tagliare i costi per provare a sopravvivere.
Il fenomeno non è nuovo, va detto, ma con la crisi è riaffiorato dovunque, nel ricco settentrione terziarizzato come nella indolente area del lavoro para-pubblico romano. Ed è un fenomeno che spinge una categoria già debole ai livelli più bassi della scala della precarietà. “Le partite Iva diventano sostitutive dei cocopro”, commenta Patrizio Di Nicola, sociologo alla Sapienza di Roma, tra i più attenti studiosi dell’universo magmatico del lavoro precario. Questa è la verità.
A compiere il percorso da atipico a “libero professionista”, senza più nemmeno un accenno di diritti e di tutele, è ancora la generazione dei trentenni, l’ala marginale del mercato del lavoro.
Eppure questo pezzo di knowledge worker, lavoratori della conoscenza, intellettuali moderni, flessibili e innovativi, avrebbe dovuto rappresentare l’avanguardia di una sorta di neo- borghesia in una società post-industriale. Questa, a sua volta, avrebbe dovuto spingere verso un incremento della produttività e arrestare il nostro declino, sfruttando le nuove tecnologie. La realtà è stata diversa e si è tradotta soprattutto in un progressivo e malcelato tradimento nei confronti di una generazione di giovani professionisti.
A quella generazione appartiene anche Astrid D’Eredità, archeologa, tarantina di nascita, romana di adozione. Racconta che da piccola provava quasi invidia per chi possedeva la tessera di Metro, il grande supermercato all’ingrosso per i professionisti, gli imprenditori, le partite Iva, appunto.
Quei capannoni blu con scritta in giallo a lettere maiuscole erano – per lei – il simbolo delle libertà di impresa, del dinamismo aziendale, dell’individualismo contro il pigro tran tran dell’impiego fisso. Entrare o meno al Metro faceva la differenza. Era uno spartiacque quasi di classe sociale, certo di modelli culturali. “Ora – dice – ho la partita Iva, ma non sono mai entrata al Metro”. Ecco. Lei aveva un contratto di collaborazione finché lavorava in Puglia, poi a Roma ha scoperto che senza partita Iva non si fa nulla nel suo settore. Si deve essere “imprenditori di se stessi”, come si diceva agli albori della flessibilità. Racconta: “La frase tipica che ti rivolgono è questa: ovviamente bisogna che lei si apra una partita Iva… “. E si comincia: non più dipendenti o para-dipendenti, bensì fornitori. Sulla carta. Perché nei fatti non cambia nulla: stesso stipendio (ma senza contributi), stesso orario, stesso vincolo di subordinazione. In alcuni contratti l’ipocrisia rompe ogni indugio e precisa a scanso di equivoci: “Il fornitore non avrà i benefici previsti per i dipendenti, inclusi assicurazioni, pensione, assistenza e altri benefit riservati agli impiegati”. E ancora: “Le suddette attività hanno carattere professionale autonomo e non potranno mai essere configurate come rapporti di lavoro subordinato o di collaborazione”.
Osserva Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil: “Sono due le motivazioni principali che spingono in questa direzione: il costo per le aziende che si riduce all’osso e, poi, la totale liberà d’azione sulle partite Iva che possono essere lasciate a casa, prima, e riprese, poco dopo”.
L’Italia è la patria del lavoro autonomo: il 27% dell’occupazione complessiva, il triplo rispetto alla Danimarca e il Lussemburgo, il doppio rispetto alla Germania, la Gran Bretagna, la Francia e l’Olanda. Ci supera solo la Grecia. Tutto questo, tra l’altro, ha aiutato anche l’anomalia delle partite Iva. Si calcola, per esempio, che con le partite Iva le aziende risparmino circa il 25% rispetto a un contratto di collaborazione e oltre il 33% rispetto a un contratto di dipendenza.
Carla S., 31 anni, pubblicitaria genovese ha provato a resistere perché non ha mai ambito a far parte del celebrato universo delle partite Iva. Da tre anni lavora in una delle più grande agenzie pubblicitarie del capoluogo ligure. Prima cocopro rinnovato, quindi contratto a termine. Poi la crisi arriva in azienda. Il consulente del lavoro suggerisce al titolare di ricorrere ai contratti di apprendistato. Ma Carla, che comunque tornerebbe indietro all’inizio della sua carriera, è troppo “vecchia” per l’apprendistato perché ha appena superato la soglia dei trent’anni. “Sono una classica bambocciona, vivo con i miei genitori. Ma non potrei fare altrimenti con 1.100 euro al mese”.
Anche per questo all’inizio ha detto no alla partita Iva e, in questo caso, al lavoro a casa. Poi ha quasi accettato, ha aperto una trattativa, ha chiesto il doppio per le spese che dovrà sostenere. Le hanno replicato che lo stipendio resta uguale e che dovrà anche formare le due nuove apprendiste. A Carla, come succede spesso, l’azienda ha proposto di aiutarla nel tenere la contabilità. Queste sono le aziende “più illuminate”, come le ha chiamate Andrea Bajani nel suo cinico racconto “Mi spezzo ma non m’impiego”, uscito qualche anno fa per Einaudi.
Anche ad Andrea Brutti, trentenne consulente ambientale, hanno imposto di diventare “imprenditore”, dopo anni di contratti di collaborazione a progetto. “C’è un problema di costi”, mi dissero. Per un po’ ha fatto anche il doppiolavorista con partita Iva: un po’ lobbysta per una associazione ambientalista un po’ impiegato in un’altra. Poi ha dovuto mollare il secondo lavoro perché gli orari erano incompatibili. Nemmeno un contratto a tempo determinato è ormai un’alternativa. “Con 800 euro al mese per 35 ore di presenza a settimana non mi conviene”. Questa è la trappola della partita Iva.
Infine c’è Federico D., manager di 39 anni, trasformato in pochi frettolosi minuti in partita Iva, dopo otto anni da dirigente in una multinazionale di servizi ospedalieri. “Era un venerdì pomeriggio quando venni chiamato dal mio capo. Ho una notizia cattiva e una buona, mi disse velocemente. La cattiva è che il tuo contratto si trasforma in consulenza, la buona è che il trattamento netto migliora. Poi mi mise in mano la lettera di licenziamento”. Ma cos’è cambiato? “Nulla. Stesso orario, stesso ufficio, stesso lavoro. Ma per l’azienda io non sono più un costo, bensì un investimento”. Una finzione contabile. Già.
La Repubblica, 9 novembre 2009