La proposta di legge per la riforma dell’università prevede un’ampia delega al Governo che dovrà poi emanare molti regolamenti attuativi. Delle sue tre parti – governance degli atenei, qualità del sistema universitario, progressioni delle carriere dei docenti – cominciamo a esaminare la terza. Il suo un impianto dirigistico la espone a un forte rischio di manipolazione. La carriera accademica non appare particolarmente allettante per i giovani. E le nuove norme entreranno in vigore solo alla fine della legislatura. Troppo tempo per una riforma tanto urgente.
La legge delega in materia universitaria presentata il 27 ottobre scorso è divisa in tre parti. La prima affronta i temi della cosiddetta governance degli atenei, la seconda la qualità del sistema universitario, la terza le progressioni delle carriere del personale docente. Affrontiamo qui i temi relativi alla terza parte, rimandando un’analisi delle altre a prossimi interventi. La legge, se approvata nell’attuale formulazione, prevede un’ampia delega al Governo che dovrà poi emanare molti regolamenti attuativi. Potrà inoltre essere modificata nel corso del dibattito parlamentare che, al contrario delle ottimistiche previsioni del ministro Gelmini, si annuncia complesso.
L’ITALIA ANCORA FUORI DALLA RICERCA
Una previsione realistica è che la parte della legge relativa alle carriere dei docenti universitari sarà applicata solo dal 2012; prevediamo un anno per il percorso parlamentare di approvazione della legge e un altro per emanare statuti e regolamenti, per disegnare i nuovi dipartimenti e avviare le procedure concorsuali. L’esperienza del decreto legge del novembre 2009 (poche righe, ma ancora in parte non applicato) lascia poche speranze circa l’efficienza della macchina amministrativa del ministero. Una prima considerazione è che la scelta di una riforma radicale e non incrementale comporta anche che per alcuni anni l’Italia continuerà a non competere nello scenario internazionale della ricerca. Cosa accadrà nel frattempo alle migliaia di persone già nei ruoli non è dato sapere. Vediamo se almeno a regime le cose andranno meglio.
La riforma prevede che in futuro la posizione dei ricercatori sia temporanea, con contratti di tre anni (eventualmente rinnovabili per altri tre) a cui potrà seguire una conferma nel ruolo di professore associato. Ciò avverrà in seguito al conseguimento di un giudizio di idoneità espresso da una commissione nazionale di abilitazione e al superamento di un concorso locale con una commissione espressa dal dipartimento che ha bandito il posto e composta dai professori della materia. Chi oggi sceglie di tentare la carriera accademica in Italia sa che per i prossimi due o tre anni non cambierà nulla, perché l’unico varco ancora aperto è il concorso per ricercatore a tempo indeterminato previsto dal decreto dell’ex-ministro Mussi. Chi invece compirà questa scelta dopo il 2012 troverà un percorso diverso, di cui tuttavia è difficile anticipare con precisione i contorni, viste le caratteristiche della riforma. Come vedremo, la riforma ha un’impronta fortemente “dirigista”; sarà il ministero o, per suo tramite, l’autorità per la valutazione (ANVUR), a fissare gli standard di abilitazione nazionale, la composizione delle commissioni, i passaggi di carriera e gli aumenti di stipendio.
Sappiamo però già da ora che sotto il profilo economico il percorso sarà poco attraente per coloro che hanno opportunità all’estero e per stranieri che volessero lavorare in Italia. La legge prevede un premio retributivo per i nuovi ricercatori a tempo determinato in misura “pari al 20% in più rispetto alla retribuzione di un ricercatore a tempo indeterminato” (comma 8 dell’art. 12 del titolo III). Profili di reddito più incerti dovrebbero essere adeguatamente compensati; ci sembra invece che il modesto incremento stipendiale rappresenti un impoverimento della posizione dei ricercatori.
CHE COSA C’È DI BUONO NELLA PROPOSTA DI LEGGE
Veniamo dunque alla proposta di legge. Un primo aspetto positivo è che i protagonisti del reclutamento saranno i dipartimenti, piuttosto che le facoltà, garantendo almeno in linea di principio una maggiore omogeneità e trasparenza del processo decisionale. Un secondo merito della proposta di legge è il riconoscimento esplicito che i ricercatori non hanno diritto ad un “posto a vita”, allineando l’Italia all’esperienza internazionale ed evitando di creare aspettative da parte di persone che non hanno le capacità di proseguire la carriera universitaria. Qui sarà importante che i tempi previsti dalla legge siano rigorosamente rispettati. Un’eventuale bocciatura al giudizio d’idoneità (per esempio al quarto anno di contratto) comporta la sospensione, per due anni, della possibilità di tentare un nuovo concorso. Il candidato potrà riprovare nel corso del sesto anno di contratto, ma se l’esame di abilitazione non si tiene davvero ogni anno, una bocciatura o un ritardo nei concorsi potrebbe significare l’ingresso nella precarietà. Sembrerebbe un punto di minore importanza, ma pochi sarebbero disposti a scommettere su un flusso di concorsi regolari amministrati centralmente.
LE RISORSE DEGLI ATENEI
Altrettanto certa deve essere la situazione finanziaria delle università, per programmare per tempo le carriere degli eventuali candidati dichiarati idonei dalla commissione nazionale. Altrimenti si correrà il rischio di candidati idonei che non possono entrare in ruolo per mancanza di risorse. Se vi fosse un vero “job market” tra università, si potrebbe immaginare che alcuni ricercatori utilizzeranno l’idoneità in altre università, magari di rango inferiore. La legge prevede, infatti, che le immissioni nei ruoli dovranno contemplare anche una quota di ingressi dall’esterno, forzando così la mobilità tra sedi. In carenza di fondi, ciò non si tradurrà necessariamente in maggiori opportunità per ricercatori “abilitati” ma esclusi dalle università che hanno esaurito le quote riservate agli interni.
UN MODO BIZZARRO DI COMPORRE LE COMMISSIONI
Anche se la riforma delle carriere è animata da buone intenzioni, l’applicazione prevista dalla legge presenta più di una perplessità. In primo luogo, appare bizzarro affidare la formazione delle commissioni di abilitazione (ad associato e ordinario) ad un sorteggio di cinque componenti. Anche escludendo dalle commissioni i docenti che non abbiano superato lo standard minimo previsto dalla legge (avere esercitato attività di ricerca nel triennio precedente, cfr. art. 5 – comma 4), i valori medi nazionali non saranno particolarmente elevati. La valutazione sarà quindi lasciata ad una commissione con competenze molto variabili e non prevedibili in anticipo. La procedura del sorteggio, unica a quanto ne sappiamo nel panorama internazionale, potrà forse ridurre il potere di qualche lobby accademica, ma ne premierà altre favorite dal caso e potrebbe avere effetti disastrosi in alcuni raggruppamenti. Oltre ai bassi salari, saranno quindi l’incertezza e l’assenza di garanzie sulla qualità delle decisioni delle commissioni che renderanno poco appetibile una carriera accademica in Italia.
Un secondo aspetto da considerare è l’importanza della selezione nazionale rispetto a quella locale. In Italia già da molti anni ricercatori, associati e ordinari sono valutati, al termine del primo triennio, da una commissione nazionale. Risultato: il candidato riceve quasi sempre un giudizio positivo ed è immesso nei ruoli (a vita). A nostra memoria, i casi di ricercatori, associati e ordinari che non sono stati confermati dalle commissioni nazionali si contano sulle dita di una sola mano. L’abilitazione nazionale prevista dalla riforma è molto simile all’attuale ”conferma in ruolo”, con la differenza, per i nuovi ricercatori, che l’abilitazione si tiene dopo sei anni (e non tre) e che la commissione è sorteggiata (attualmente nominata dal CUN). Date le esperienze del passato e i mille trucchi noti ai professori universitari per aggirare vecchie e nuove norme, è probabile che ottenere l’abilitazione nazionale non sarà particolarmente difficile (1).
Un terzo aspetto critico è l’esclusione dei giovani dai processi valutativi nazionali per il conseguimento dell’abilitazione e persino delle commissioni di dipartimento (art. 9, comma 2: “una commissione di almeno cinque membri con il compito di procedere alla selezione e composta da tutti i professori ordinari della struttura”). La gestione del processo di selezione sarà quindi assolta esclusivamente dagli ordinari, a conferma che nel nostro paese gli anziani sono l’élite, e i giovani devono attendere il loro turno. Chi abbia trascorso qualche tempo in un dipartimento straniero sa che spesso proprio i giovani (associati e ricercatori da noi) sono i più interessati e coinvolti nel processo di reclutamento; sono loro, molto più di anziani professori in declino, che potranno collaborare con i nuovi colleghi sul fronte della ricerca.
Infine, la legge prevede la partecipazione alle commissioni nazionali di “studiosi e di esperti di pari livello in servizio presso università di un Paese aderente all’OCSE”. Sarebbe interessante sapere come si pensa di convincere uno studioso straniero di primo piano a partecipare stabilmente ad una commissione nazionale che prevede l’esame, ogni anno, di decine di domande. Il carico di lavoro sarà notevole, perché la legge prevede che i commissari italiani potranno chiedere un congedo per partecipare alle commissioni (art. 8, comma 3: “i commissari in servizio presso atenei italiani possono, a richiesta, essere parzialmente esentati dalla ordinaria attività didattica), facoltà ovviamente preclusa a un docente straniero.E ci domandiamo anche perché non si sia previsto l’obbligo, nelle procedure di selezione locale, di lettere di valutazione del candidato da parte di docenti stranieri esperti nel campo, così come avviene a livello internazionale quando si tratta di attribuire una “tenure”.
UN MIX INDIGESTO DI AUTONOMIA E CENTRALISMO
Complessivamente ci sembra quindi che il disegno di legge delega non rappresenti, nella parte riguardante le carriere, una soluzione particolarmente innovativa ed efficace del problema della selezione dei docenti universitari in Italia. I tempi lunghi di attuazione rischiano inoltre di allontanare dall’accademia italiana un‘intera generazione e di perpetuare forme di precariato. Dato l’approccio dirigista che ispira la riforma, sarebbe stato più coerente, semplice e trasparente un ritorno al concorso unico nazionale. Noi però abbiamo una visione diversa; preferiremmo che fossero i singoli dipartimenti responsabili del reclutamento, individuando in autonomia tempi e modalità delle assunzioni, che docenti e dipartimenti fossero valutati, e che alla valutazione seguissero forti incentivi e penalizzazioni. Nel tentativo di mediare tra autonomia e centralismo, la legge rischia di sommare i difetti di entrambi i sistemi.
(1) Una parte innovativa della legge – quella di maggiore interesse per i giovani e l’apertura internazionale – riguarda una quota di assegni di ricerca che saranno banditi a livello nazionale, ed in cui i vincitori potranno scegliere l’università dove svolgere la propria attività. Ma non è chiaro quale sarà la quota di risorse destinata a questo canale di reclutamento. È del tutto evidente che se la quota di assegni sarà modesta, il provvedimento sarà inefficace.
LaVoce.info, 4 novembre 2009
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