partito democratico

“Bersani, primo giorno da segretario”, di Marcella Ciarnelli

Pier Luigi Bersani è il segretario del Pd. «Farò il leader del Pd, ma lo farò a modo mio. Non il partito di un uomo solo ma un collettivo di protagonisti» ha detto il leader eletto del Partito democratico. Per Dario Franceschini «non è il giorno della delusione, ma è una festa per tutti perché ha vinto il Pd». E Ignazio Marino non ha nascosto la soddisfazione per l’affermazione della sua mozione. Ma innanzitutto c’è stato da parte di tutti entusiasmo per un risultato che nessun scrutinio avrebbe potuto mettere in discussione. La partecipazione straordinaria è stata da subito un dato inconfutabile. Incredibile, al di là delle previsioni. Così come il messaggio che era stato mandato da tanta gente che con quel voto ha voluto trasmette un desiderio di buona politica e anche di unità in un partito fin qui troppo impegnato in sterili dispute interne. Alla tredicesima ora, allo scoccar delle venti, a seggi appena chiusi ma non per i tanti votanti ancora in fila, c’era già un risultato. Inconfutabile. Al di là del segretario è stato evidente che i democratici ci sono. Sono un popolo compatto e combattivo. Che crede nelle Primarie. Ci sono ovunque. Lungo tutta la penisola, nella grandi città e nei piccoli paesi, nei luoghi in cui si soffre di più per la mancanza del lavoro e lì dove il lavoro c’era ed è stato perso, nelle periferie e nei centri storici, in montagna e in vista del mare. Non solo nelle roccaforti di quelli che furono i partiti tradizionali della sinistra e del centro, uniti poi nella sfida di dare all’Italia un grande partito capace di rispondere alle esigenze concrete ed al cuore di chi ancora crede nella politica, ma ovunque. A dispetto di un centrodestra che mastica amaro già solo davanti ad una affluenza incredibile e identifica in essa i segnali di uno «sbando» che invece, data la innegabile tensione che regna nel governo, sembra appartenere più a chi trancia il giudizio. E’ la solita questione della trave e della pagliuzza… Il popolo del Pd che non è restato a casa. Ed ha affollato i gazebo, in fila, ordinato, passando il tempo, a volte anche ore, a discutere e confrontarsi. A commentare, inevitabilmente, un fatto doloroso come quello che ha visto coinvolto il governatore del Lazio, che qualcuno l’ha anche demoralizzato, ed diventato per tutti un’altra «nottata» da far passare. Come tante altre prove, anche se di diversa natura, che però non sono riuscite ad indebolire la passione, la speranza e la fiducia di chi ha fatto la fila, ha detto nome e cognome, ha messo mano al portafoglio ed ha dato almeno due euro per mettere due croci sulle schede convinto così di garantirsi un futuro migliore. Se Berlusconi si dice sicuro di poter fare di tutto perché ha il popolo alle spalle, ebbene da ieri c’è la certificazione che c’è tutto un altro popolo che alle sue spalle non ci sta e farà di tutto perché lui se ne torni a casa. Democraticamente. Ma a casa. In modo che l’Italia torni ad essere un paese normale, senza un solo padrone che pensa innanzitutto ai propri interessi. Che la giornata fosse di quelle da non dimenticare lo si era capito già alla prima rilevazione sull’affluenza. Alle 11,30 della mattina erano quasi novecentomila quelli che si erano recati ai seggi. Un segnale confortante che, facendo un po’ di grossolani conti, lasciava intendere che alla chiusura sarebbe stato registrato un risultato entusiasmante. Che uno dopo l’altro, una croce dietro l’altra, in una domenica di fine ottobre riscaldata da un tiepido sole, si era andato costruendo un muro invalicabile da chi crede di essere l’unico che conta e può decidere in questo paese. Ovviamente da solo. Dall’altra parte ci sono quei quasi tre milioni con cui fare i conti. Al di là di tutto, dunque, restano quelle tredici ore di voto in cui è stato dimostrato che il popolo del Pd c’è.

L’Unità, 26 ottobre 2009

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“Una bella giornata per la democrazia”, di Curzio Maltese

Tre milioni di votanti, cinquantamila volontari in diecimila seggi, decine di milioni di euro raccolti. Se qualcuno nel Pd ha ancora dubbi sulle primarie è un pazzo. Sono l’elemento più identitario del partito, dal giorno della nascita.

È stata una grande giornata per l’unico partito al mondo che coinvolga tanti cittadini nella scelta del segretario, ma soprattutto per la democrazia. Il voto degli elettori ha confermato nella sostanza quello degli iscritti. Bersani è il vincitore, ma Franceschini e Marino non escono sconfitti. Il segretario uscente ha avuto proprio ieri la conferma d’aver svolto bene la missione di salvare il Pd nella stagione peggiore e oggi può consegnarlo al successo in ottima salute. Ignazio Marino è stata la sorpresa del voto popolare, a riprova che i temi del rinnovamento e della laicità sono assai avvertiti dalla base.

La vera notizia è la partecipazione. Tre milioni non li aveva previsti nessuno. Tanto meno dopo l’ultimo desolante caso di Piero Marrazzo. Il popolo democratico ha invece reagito con un atto di generosità e responsabilità, qualità più rare ai vertici. La corsa alle primarie può segnare un punto di svolta nello stallo politico. È una scossa positiva per il Pd, in cerca d’identità da troppo tempo. Ed è una spallata al governo Berlusconi, già avvitato in un evidente declino. Una spallata vera e potente, che non arriva dalle élites e dai palazzi complottardi di cui favoleggiano i demagoghi, ma piuttosto da milioni d’italiani. Cittadini normali che si sono svegliati presto di domenica, messi in fila, versato un contributo, atteso i risultati fino a notte. Non perché Bersani, Franceschini o Marino siano leader di travolgente carisma, né sull’onda di un entusiasmante dibattito congressuale. Ma nella speranza d’infondere al principale partito d’opposizione la forza necessaria per mandare a casa il peggior governo della storia repubblicana.

Questo è il chiarissimo mandato che i tre milioni consegnano nelle mani del vincitore Bersani, ma anche a Franceschini e Marino, da oggi chiamati a collaborare come rappresentanti delle minoranze interne a un grande progetto. Si tratta di vedere se la nuova dirigenza saprà interpretarlo o, chiusi i gazebo, tornerà a rinchiudersi nelle stanze affumicate di strategie tanto sottili quanto perdenti. Come è sempre accaduto finora. Il nuovo leader democratico ha davanti compiti difficili e tempi strettissimi, da qui alle regionali. Il primo è rilanciare il Pd alla guida di un’opposizione seria nei toni, ma dura nella sostanza. Più dura di quanto non sia stata finora. Di “tregue” a Berlusconi, più o meno volontarie, il centrosinistra ne ha offerte già troppe in questi anni. Un’ulteriore resa a un Cavaliere a fine corsa, almeno nell’opinione mondiale, sarebbe interpretata come un tradimento degli elettori e si tradurrebbe in una catastrofe politica.

Il secondo compito è quello di affrontare il rinnovamento interno al partito, che non sia la solita mano di bianco sulla nomenklatura. Nei confronti dei casi inquietanti segnalati qua e là, la base si aspetta da Bersani che agisca con rapidità e chiarezza. Per fare l’esempio più recente, che convinca Marrazzo, dopo l’opportuno gesto dell’autosospensione, a tagliare la testa al toro e rassegnare subito le dimissioni da governatore.

Occorre certo un po’ di coraggio, quello che è sempre mancato ai leader, davvero non al popolo di centrosinistra. Ma il coraggio, se uno non l’ha, milioni di voti glielo potrebbero pur dare. A Prodi e a Veltroni non erano bastati. Bersani ne ha presi molti meno, ma alla fine di primarie vere e combattute fino all’ultimo. Ora ha l’occasione di dimostrare nei fatti quanto aveva ragione a criticare i predecessori.

La Repubblica, 26 ottobre 2009