L’Università italiana attraversa un periodo difficile. Sono ormai decenni che il nostro sistema è in una situazione di crisi e di decadenza né, qualunque sia il giudizio che si voglia dare su di essi, hanno avuto un serio effetto riformatore, le politiche fatte in questo periodo. Ora è il turno del Ministro Gelmini che, dopo alcuni interventi frammentari, si è proposto di presentare una riforma organica dell’Università imperniandola sulla valorizzazione del principio del merito, che dovrebbe essere la nuova bussola del sistema. Sul merito si è fatta moltissima retorica in questi anni; personalmente sono convinto che debba essere tenuto strettamente fermo con altrettanto rigore il principio dell’eguaglianza, secondo i dettami della Costituzione. L’Italia è un paese che diventa sempre più diseguale, intrecciando alle vecchie diseguaglianze di ordine sociale nuove diseguaglianze di carattere politico, sociale e perfino territoriale. Si è giunti perfino a parlare nuovamente di gabbie salariali. Ragionare dell’Università italiana non significa affrontare un problemadi carattere settoriale: si tratta di una questione nazionale, strettamente connessa all’idea che siha dell’Italia, del rapporto tra l’Italia e l’Europa e della funzione del nostro paese nell’epoca della globalizzazione. E si tratta di problemi al tempo stesso culturali, istituzionali ed economici. Faccio solamente un esempio. Uno dei problemi di fondo della nostra Università è il suo rinnovamento: bisogna aprire l’Università alle nuove generazioni che allo stato attuale o sono respinte oppure vanno via dal nostro paese. Ma per riaprire le porte dell’Università è necessario trovare nuove risorse o fare delle economie mettendo fine a vecchi privilegi, compresi quelli dei docenti. Gran parte delle Università è in una difficilissima situazione economica anche per la spesa esorbitante destinata al pagamento del personale docente, anche in conseguenza delle sciagurate politiche di reclutamento fatte negli ultimi anni, che si sono intrecciate a una disorganica e caotica proliferazione sia di nuove Università che di inediti – talvolta inauditi – corsi di laurea. Per l’urgenza di queste difficoltà le Università, anche le più prestigiose, sono state costrette a ripensare i criteri generali di spesa, condizione indispensabile per ottenere nuovi finanziamenti. Per questo esse si sono giovate di un importante, e misconosciuto, provvedimento del Ministro Mussi, il quale ha eliminato quel privilegio feudale che è il fuori ruolo dei professori universitari. Esso – lo ricordo a chi non lo sapesse – consisteva nel diritto dei professori di continuare a fruire dello stipendio anche quando avessero compiuto 70 anni e fossero usciti dai ruoli dell’insegnamento. Stipendio che ricadeva interamente sul bilancio delle Università dei singoli docenti contribuendo ad accentuare il loro stato di disagio. Il Ministro Mussi ha dunque compiuto un’azione buona e giusta per la nostra Università. Questo provvedimento è stato però duramente contestato dai docenti colpiti, che hanno fatto ricorso alla Corte costituzionale, la quale nei primi giorni di novembre si riunirà per esaminarlo ed emettere una sentenza definitiva sul problema. Mase quanto si è detto è giusto, ritornare al fuori ruolo avrebbe due effetti nefasti: 1. Diminuire le possibilità di apertura delle porte delle Università alle nuove generazioni; 2. Respingere la maggior parte delle Università italiane in unasituazione di difficoltà economica dalla quale si stanno risollevando con grande fatica. Naturalmente il problema è culturale, non solo di ordine economico. È opportuno che le università continuino a servirsi di quegli studiosi che, arrivati ai settanta anni, sono in grado di illustrarle con la loro personalità e di formare nuove generazioni di studiosi. Ma esse oggi hanno nuovi strumenti a loro disposizione per ottenere questo obiettivo e continuare a mantenere nell’attività didattica studiosi di alto rilievo e qualità. Possono ricorrere ai contratti, chehanno molte qualità: sono flessibili; meno onerosi per le Università; preziosi per l’attività didattica degli atenei, che possono così continuare a giovarsi delle energie di colleghi autorevoli i quali, invece di essere collocati nella riserva del fuori ruolo, possono continuare a svolgere, in piena autonomia, la propria missione scientifica e didattica; e tutto questo senza pregiudicare il reclutamento di nuovi docenti. Speriamo che la Corte costituzionale mostri anche in questo caso la saggezza che ha saputo mostrare in altre delicate situazioni.
* Docente di Storia della filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa
L’Unità, 19 ottobre 2009