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“Al servizio del capo” di Michele Serra

Il video sul giudice Mesiano andato in onda su Canale 5 è spaventoso,
e lo è qualunque sia la sua genesi giornalistica. È spaventoso se il
suo impressionante effetto minatorio discende da un’intenzione
consapevole. Ma è spaventoso anche se siamo di fronte a un gioco
cretino, come di chi padroneggia malamente un’arma e credendo di
sparare a salve esplode pallottole vere.
Il testo, di livello perfino più basso di quel sub-giornalismo che è
il gossip televisivo, farebbe propendere per la seconda ipotesi: un
gioco cretino sfuggito di mano. Ma la costruzione del servizio
(pedinamento di un magistrato ritenuto “nemico” del proprio editore,
così da indicarlo all’odio e al dileggio della propria curva tifosa),
e la sua messa in onda nel programma mattutino della rete generalista
di Mediaset, con tanto di commento demolitore (e “senza
contraddittorio”, come dice l’onorevole Gasparri quando attacca la
Rai) di due giornalisti del gruppo, impedisce di credere che si tratti
di un banale incidente.

Il clima di forte scontro politico non può essere un alibi. Non è il
cozzo delle idee, non la polemica ideologica a dettare questo genere
di colpi sotto la cintura. È la volontà di attaccare e isolare
personalmente, quasi uno per uno, quelli che il leader e padrone
considera gli avversari veri e presunti, e dunque esercita, sui meno
sereni e meno liberi dei suoi dipendenti, una doppia attrazione,
politica ed economica.

In una confusione oramai patologica, irreversibile e venefica (per il
paese intero) tra patrimonio politico e patrimonio personale del Capo.
È la voglia di andare a stanare dal barbiere Mesiano, sputtanarlo
(verbo berlusconiano) con qualche sciatta considerazione sul suo
abbigliamento del sabato mattina, dargli dello “stravagante” perché
fuma (?!), evitare che anche una sola parola sia spesa in sua difesa
(nel vituperato “Anno zero” i giornalisti e i politici di destra hanno
una postazione fissa), perché distruggere la persona è il sistema più
rapido per risolvere i contenziosi, e levare di mezzo l’ingombro.

O si trova, come nel caso del già dimenticato Boffo, qualche vecchia
carta per dare fuoco alla pira, o si confeziona qualcosa di comunque
infamante, per esempio spacciando una promozione pregressa per un
“premio” (e di chi?) per la sentenza Cir. Il tutto, per giunta, sotto
l’equivoco, ipocrita pretesto della “legittima difesa”, perché
l’argomento prediletto da chi pratica questo genere di pestaggio
giornalistico è che anche l’attacco a Berlusconi è un attacco alla
persona: come se la condotta di vita del presidente del Consiglio, i
criteri con i quali dispensa le candidature, il genere di persone
delle quali si circonda a palazzo, non fossero quanto di più pubblico
si possa immaginare.

Ma il clima è questo. È un clima nel quale chi governa, chi comanda,
chi vanta la maggioranza dei voti e il controllo del Parlamento, si
rivolge agli oppositori come se fossero insopportabili oppressori del
cui giogo, finalmente, liberarsi. Così da udire il leghista Castelli
(da Santoro) gridare a Curzio Maltese “tu vivi nel mondo marcio di
Repubblica”, e in quel “marcio”, anche se Castelli non lo sa, c’è
tutto il puzzo del fascismo. Così da leggere, su Libero di ieri, che
“il Caimano non è un film, è una secrezione corporea di Moretti”,
quello stesso Moretti accusato dal Giornale di avere “dirottato” fondi
europei per il suo nuovo film, tacendo che più di quaranta registi,
anche italiani, ne hanno avuto ugualmente diritto. Così da imbattersi
(da anni a questa parte) in vere e proprie liste di proscrizione dei
“rossi” che lavorano alla Rai, ovviamente tutti miracolati politici,
tutti scrocconi di soldi pubblici, tutti nel calderone indistinto
delle “élite di merda” che prima o poi la pagheranno.

A furia di essere indicati con nome, cognome e stipendi (i guadagni
dei “nemici” sono un’altra delle ossessioni di questo giornalismo
ossesso), alcune di queste persone sono insultate per strada come
“sporco comunista”. Ora toccherà, probabilmente, anche al giudice
Mesiano.
La Repubblica 17.10.09