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Dario Franceschini: discorso ai talenti. La quarta tappa del viaggio dei 10 Discorsi

La differenza italiana. E’ nella nostra storia. Nei nostri territori. Nel nostro patrimonio culturale. Nella nostra creatività. La differenza italiana è il talento degli italiani. Il talento come possibilità.
Il talento come dote da far fruttare. Ma l’Italia sa sfruttare i suoi talenti?In molti casi sa farlo.
Penso alla straordinaria realtà che ci ospita oggi.
A che cosa abbia prodotto la creatività e l’intuito di Carlin Petrini. Un pensiero lungo, capace di legare assieme tradizione e futuro. Un pensiero che è diventato cultura. Ma anche economia. Anche sviluppo.
Possibilità di lavoro per tanta gente, per tanti giovani. Slow food. Terra Madre. L’Università. Molto più che simboli. Molto più che marchi da spendere in un nuovo mercato.
Qui a Pollenzo c’è l’esempio di un modello italiano vincente e invidiato nel mondo.
Un modello che ha messo a frutto il suo talento: l’ambiente, il territorio, la storia, il cibo. La biodiversità. Le tradizioni di un mondo che continua a vivere. Che deve continuare a vivere. E che non ha paura della globalizzazione e delle sue sfide. Un’intuizione che punta sulla qualità.
Ma purtroppo oggi è un’altra Italia, un’Italia diversa quella che fa notizia.
Quella che sotterra e sperpera i suoi talenti. Li sotterra nel fango dei fiumi e dei torrenti che tracimano per l’incuria in cui sono abbandonati. Li sotterra nelle frane che si abbattono sulle case costruite dove non si dovrebbe. Li sotterra nei fondali dei nostri mari, dentro fusti pieni di veleni.
Non è soltanto la cronaca drammatica di questi giorni, di queste ore, che spinge a mettere l’ambiente in cima alla lista dei talenti traditi.
Il nostro patrimonio più ammirato. Quello che tutto il mondo ci invidia.
Però c’è un’Italia che ha due facce. C’è l’ambiente ferito dall’illegalità delle ecomafie a Caserta o a Napoli dove sono stati abbattuti migliaia di capi di bestiame perché nel loro latte c’era tanta diossina da essere considerato un rifiuto pericoloso.
Un frutto avvelenato di Gomorra, degli affari della camorra che con lo smaltimento illegale e gli incendi dei rifiuti ha avvelenato i terreni, l’aria, il mare.
C’è il paesaggio ferito dal cemento che distrugge la bellezza del nostro paese, che lo rende più insicuro, come è accaduto troppe volte. Ieri in Abruzzo, pochi giorni fa a Messina.
C’è l’ambiente inquinato delle nostre città. L’aria irrespirabile. Il degrado dell’ambiente, il territorio sfruttato e ostaggio dell’illegalità criminale, ma anche delle omissioni della politica, della pigrizia delle pubbliche amministrazioni. Delle corruzioni piccole e grandi.
Tollerate, se non incoraggiate, in nome di un malinteso senso di libertà, che senza regole diventa arbitrio.
E’ l’Italia dei mille condoni, delle proroghe. L’Italia del si salvi chi può. E degli scudi fiscali.
E’ la foto di un’Italia grigia, nella quale prevalgono le ombre di un possibile declino.
Ma c’è anche un’altra Italia. Operosa, attiva, soprattutto positiva.
Ci sono i colori di una fotografia che mette in evidenza un altro profilo di questo Paese che non si arrende, non vuole arrendersi al declino.
Che sa riconoscere e apprezzare i suoi tesori. Anche quelli ambientali, se è vero che per superficie protetta da parchi nazionali siamo secondi in Europa e quarti per quella tutelata da parchi regionali. E’ l’Italia dei tanti territori cresciuti sulla valorizzazione del “made in Italy” e delle produzioni tipiche, dove l’incrocio tra saperi tradizionali e innovazioni tecnologiche sviluppa economie ad alto valore aggiunto, che producono più benessere e consumano meno energia e risorse fisiche.
Un’Italia che in questi anni si è rafforzata quando ha saputo puntare sulla qualità.
Producendo quella innovazione che fa sì che le nostre aziende siano già nel cuore della green economy.
Prima ancora la politica abbia assunto questo come valore trainante della nostra economia
Ci sono imprese ed imprenditori che hanno fatto i conti con la competizione globale e hanno cambiato la loro offerta per vincere. Puntando tutto sulla qualità.
C’è un esempio vincente di come la scelta della qualità è stata la risposta alla crisi di un settore storico.
Parlo del vino italiano.
Poco più di vent’anni fa vi fu il grave scandalo del metanolo. Diciannove vittime. Inchieste della
magistratura. L’immagine di un intero settore sfregiata in tutto il mondo.
L’errore era stato puntare soloo sualla quantità ad ogni costo. Poi la rinascita.
Oggi produciamo il 40% in meno del vino rispetto alla metà degli anni 80, ma il valore dell’ export è quadruplicato raggiungendo i 3,5 miliardi di euro. Una produzione nel segno della qualità.
Parlo dell’Italia leader europeo per la diffusione del metodo della produzione biologica. Nel nostro Paese opera circa un terzo delle imprese biologiche europee e si colloca un quarto della superficie bio comunitaria.
Siamo leader mondiali anche in altri settori come la meccatronica.
Oggi rispetto a qualche anno fa, esportiamo la metà delle scarpe, ma è aumentato il fatturato.
Alle Olimpiadi di Pechino erano bresciani molti dei fucili che hanno vinto medaglie, marchigiane le
macchine elettriche, piemontesi le pavimentazioni degli impianti sportivi, lombarde le piscine, toscani gli scafi del canottaggio ed era del CNR la centrale di monitoraggio ambientale, la più grande al mondo.
E’ l’Italia dei distretti industriali, delle 4.700 imprese medio grandi del cosiddetto Quarto Capitalismo, della moltitudine delle piccole, ma anche delle grandi produzioni agroalimentari di qualità.
E’ l’Italia che ha molto da insegnare, con i suoi imprenditori, le sue comunità, i suoi saperi e orgogli territoriali,il suo straordinario capitale umano, le sue professionalità e i suoi valori.
E’ l’Italia che ha una serie di primati che può vantare con legittimo orgoglio.
Prima nel tessile, nell’ abbigliamento e nel cuoio, pelletteria e calzature.
Seconda nella meccanica non elettronica, in quella elettrica e negli elettrodomestici, nei prodotti manufatti di base (prodotti in metallo, marmi, piastrelle in ceramica), nell’ occhialeria, nell’ oreficeria e nei prodotti miscellanei.
Terza negli alimentari trasformati (vino,olio, pasta,conserve).
E siamo al primo posto in Europa nella graduatoria dei prodotti Dop e Igp con 182 prodotti certificati e 62 in protezione transitoria, seguiti dalla Francia con 166, quindi dalla Spagna con 123.
E’ un Italia, che sa correre e sa competere nei settori produttivi più avanzati.
Quelli delle tecnologie, dell’informazione e della comunicazione, che ci vedono occupare una posizione di leadership europea.
Parlo della fotonica, di cui rappresentiamo l’8% del mercato continentale, del biotech e in particolar modo delle scienze della vita, con una specializzazione nel farmaceutico che ci fa essere il terzo paese in Europa per numero di addetti e il quinto al mondo in una classifica dominata da Stati Uniti e Giappone.
Parlo del settore aerospaziale dove siamo settimi al mondo e quarti in Europa, con una posizione di rilievo mondiale nel settore degli elicotteri, nella produzione di sistemi radar e nel controllo del traffico aereo.
E poi c’è quella straordinaria miniera rappresentata dal nostro patrimonio artistico e culturale
Il valore dell’industria culturale italiana corrisponde al 6,3% del PIL nazionale, in media con quello europeo, di poco superiore.
Ma lo spazio per la potenziale crescita di questi valori è enorme e in grandissima parte inesplorato. Si pensi solo al fatto che l’immenso patrimonio storico‐artistico che l’Italia ha a disposizione è il più vasto a livello mondiale: oltre 3.400 musei, 2.000 aree e parchi archeologici e 44 siti Unesco.
Questo potenziale è sottoutilizzato e sottovalutato, quando non trascurato, dimenticato o abbandonato.
Invece gli investimenti culturali possono rappresentare un grande moltiplicatore economico per tutta la nostra economia.
Un esempio banale: il 29,8% delle imprese che hanno finanziato un evento culturale hanno avuto un vantaggioso ritorno d’immagine e, conseguentemente, di profitto.
E poi ci sono ambiti di eccellenza troppo poco considerati.
Ad esempio quello del cinema d’animazione per il quale l’Italia è il terzo produttore europeo. Oppure come del design, per il quale siamo secondi nel mondo per numero di brevetti registrati.
E c’è il turismo. L’Italia è al quarto posto nella classifica dei principali paesi del mondo per entrate turistiche e il secondo in Europa, soltanto dietro la Spagna, per numero di pernottamenti di stranieri, e il primo per numero di pernottamenti di turisti russi e cinesi.
Insomma abbiamo i tesori. Abbiamo i nostri talenti. Ma non abbiamo le politiche.
O abbiamo politiche sbagliate.
Non può esistere conservazione dei beni culturali se non è associata ad una puntuale promozione dei beni stessi.
La sensazione è che il nostro paese sia ripiegato su stesso e incurante di ciò che avviene attorno a noi, dentro cambiamenti velocissimi.
Negli Stati Uniti, ad esempio, dopo 15 anni di riduzione del bilancio per le politiche culturali, e con una consolidata presenza di investimenti privati, Obama ha invertito la tendenza, aumentando gli stanziamenti in questo settore.
La Francia di Sarkozy ha affrontato la crisi puntando anche sulla promozione del proprio patrimonio culturale. Nel 2009, infatti, il governo francese ha stanziato 100 milioni di euro aggiuntivi per i monumenti storici, oltre ai 300 già deliberati per il patrimonio artistico.
Nell’Inghilterra di Tony Blair e Gordon Brown con il Creative Britain sono stati lanciati piani d’investimento per l’industria creativa.
In Irlanda è stato creato un vero e proprio hub per la creatività culturale attraverso un forte sistema di detrazioni per le imprese che operano nel settore.
L’Italia che, come abbiamo visto, potrebbe e dovrebbe esercitare nel campo della cultura e di tutto ciò che vi è connesso, sceglie la politica dei tagli.
Tagli che colpiscono un diritto essenziale tra quelli di cittadinanza: il diritto alla cultura. Ma che colpisce anche la possibilità di crescita del nostro sistema economico. Ecco.
C’è l’Italia che funziona. Che produce. Che non si arrende. Questa Italia di qualità è la carta che possiamo giocare per uscire dal tunnel della crisi.
Perché questa Italia è capace di mettere assieme innovazione, ricerca, ambiente, cultura.
E su questi fattori riesce a costruire quell’ingrediente indispensabile che è la coesione sociale.
Ma questa enorme potenzialità fatta di saperi, creatività e talenti, ha bisogno di un sistema che la sostenga.
Ha bisogno di una politica che comprenda che nel mondo globalizzato, in cui non contano più nulla le distanze e le frontiere, ogni economia nazionale non potrà più illudersi di essere competitiva su tutto ma dovrà individuare la propria vocazione, e lì investire, dove è più forte e più competitiva, dove è meno imitabile.
Alcuni paesi investiranno sulla grande industria, altri sul basso costo della mano d’opera, altri sulle grandi estensioni territoriali.
Noi dobbiamo investire sulla qualità, sulla parte alta della filiera produttiva, sui talenti, sulla creatività, sulla forza del capitale umano, sull’intelligenza delle nostre giovani generazioni.
Ma per riuscirci bisogna parlare con sincerità e rigore di quello che nel sistema Italia non funziona. Di quello che avvilisce questa potenzialità e questa ricchezza.
Di quell’ipoteca negativa che mangia il frutto dei talenti. Dobbiamo parlare della responsabilità della politica.
Dobbiamo dire che di fronte alle gravi, profonde contraddizioni di questo paese, alle sue difficoltà, alla fatica collettiva che gli italiani stanno facendo per sopportare il peso di una crisi senza precedenti, occorre prima di tutto serietà.
Dobbiamo riconoscere che in molti casi la politica è causa di quelle contraddizioni, di quei ritardi.
C’è, infatti, una politica che, rinunciando di fatto a governare i processi, finisce per assecondare i vizi più profondi di questo paese.
Una politica che baratta favori in cambio di consensi. Che garantisce privilegi. Che chiude gli occhi di fronte alle piccole e grandi illegalità.
Perché se è vero che c’è stata una politica cattiva, che ha viziato e incoraggiato gli istinti peggiori di questo paese, è anche vero che l’alternativa è stata debole. Inadeguata.
C’è stata un’altra politica che non si è accorta del cambiamento.
Che è restata prigioniera dei suoi schemi. Di valori annunciati e disattesi.
Una politica che non ha saputo guardare le cose nuove con occhi diversi.
Servono poche cose semplici ma coraggiose.
La prima cosa è rompere il guscio duro dei privilegi. Delle ingiustizie. Quelle incrostazioni di potere, convenienze, interessi, pigrizie che bloccano il nostro Paese.
Che lo immobilizzano nella palude della conservazione.
La destra ha costruito gran parte della sua fortuna elettorale su questa sensazione, falsa e illusoria, di una forza in grado di garantire sicurezza e protezione sociale.
Invocando un cambiamento che non c’è stato, ha occupato il potere. E lo ha usato semplicemente per fare in modo che nulla cambiasse.
Per conservare un’Italia ferma. Per conservare privilegi inaccettabili.
Le tragedie dell’Abruzzo e del messinese non avrebbero avuto le conseguenze drammatiche che hanno avuto, se chi doveva far rispettare le regole avesse fatto il suo dovere.
Poche ore prima della sciagura abruzzese nel famigerato piano casa del governo erano scritte norme che autorizzavano la semplificazione delle procedure antisismiche.
E, a proposito di piano casa, è di queste ore il ripensamento del governo regionale siciliano.
Doveva accadere l’ennesima tragedia per fermarsi? Perché sempre dopo? Perché sempre troppo tardi?
Ora tutti si dicono convinti che occorra cambiare registro. Tuttavia non bastano più parole e buone intenzioni. Servono i fatti.
Si è detto che per un piano nazionale di manutenzione straordinaria che metta in sicurezza il territorio servirebbero 40 miliardi di euro.
E allora, visto che questa è una vera grande priorità, chiediamo al governo di destinare a questo piano le risorse provenienti dal rientro dei capitali all’estero, dallo scudo fiscale.
Sarebbe un modo per rendere alla comunità almeno una parte di ciò che la disonestà di alcuni ha sottratto. Bisogna cambiare.
Bisogna cambiare anche la politica, anche la nostra politica.
Irene Tinagli, autrice di bellissimo saggio che si intitola significativamente “Talento da svendere”.
illustrando ieri l’altro il Rapporto sulla mobilità sociale, ha messo in evidenza questa anomalia italiana.
In Italia i figli dei ricchi sono ricchi, quelli dei poveri hanno molte probabilità di restare poveri.
Nel nostro Paese circa il 50% del differenziale di ricchezza dei genitori si trasmette ai figli. La percentuale degli altri paesi europei è attorno al 20%.
Da noi il 44 per cento degli architetti è figlio di architetto, il 42 per cento di avvocati e notai è figlio di avvocati e notai, il 40 per cento dei farmacisti è figlio di farmacisti.
Come si rompe questa cappa di immobilismo? Prima di tutto riscoprendo il significato di una parola che per troppo tempo ci è sembrata estranea alla
nostra cultura politica. E abbiamo sbagliato. La parola merito. Merito.
Come possiamo parlare della valorizzazione dei nostri talenti, se non ripartiamo dal merito?
Il merito significa riconoscere e valorizzare le capacità delle persone.
Per questo la promozione del merito presuppone che si diano a tutti eguali opportunità non solo di partenza, ma nel corso della vita.
Merito vuol dire riattivare la mobilità sociale. Per troppo tempo abbiamo abbandonato questo valore nelle mani della destra. Ma il merito è il più forte antidoto alle ingiustizie. A quelle ingiustizie che penalizzano sempre i più deboli e che alimentano le diseguaglianze.
Non si tratta di un discorso astratto o moralistico.
Le aspirazioni, gli interessi, le passioni di un individuo, all’interno di una convivenza regolata, non sono un rischio per la comunità, ma una risorsa. Ciò che la spinge verso il futuro.
Non è vero che l’individualismo egoista che ferisce le nostre società sia un destino inevitabile.
Non è vero che l’unica interpretazione possibile della libertà sia quella giocata contro il prossimo.
Quindi educare al merito per esaltare i talenti.
Merito nella scuola e dall’università e dal mondo della ricerca.
Merito nella macchina dello stato. Nelle pubbliche amministrazioni.
Merito come criterio di scelta. Ma la prima riforma che dobbiamo fare è quella di rompere il sistema che impedisce ai più bravi di andare avanti. Un sistema in cui se hai un curriculum eccezionale, hai studiato, ti sei spaccato la schiena, poi al momento di mettere a frutto tutto questo qualcuno ti passa avanti. Esiste un sistema di protezioni, caste politiche, sociali, familiari. La prima cosa che dobbiamo fare è rompere quelle protezioni.
Merito anche nello spazio dell’attività economica privata.
Oggi esistono due tipi di imprese in Italia.
Quelle che stanno sul mercato, esportano e sono esposte alla concorrenza internazionale.
E ci sono quelle che invece operano prevalentemente sul mercato interno, in settori protetti ovvero in settori dominati dalla domanda pubblica. Sono due mondi diversi.
Il primo deve misurarsi con la qualità, con l’innovazione e deve vincere ogni giorno sul mercato globale dimostrando di essere migliore degli altri.
Il secondo può scaricare sui consumatori, sui fruitori dei servizi pubblici, sul denaro dei contribuenti, le conseguenze di regole poco concorrenziali e di scarsa trasparenza ed efficacia nel rapporto tra imprese e amministrazioni pubbliche.
Mettere assieme alla parola mercato le parole del merito e della qualità significa, dunque, affermare anche nei rapporti economici una nuova etica della responsabilità, regole e trasparenza a tutela delle imprese e dei cittadini. Insomma. Merito e qualità.
Vale anche per la buona politica. Una politica che deve cambiare.
Devono cambiare i partiti. Dobbiamo cambiare noi. Deve cambiare il loro rapporto con la società.
Servono apertura, coinvolgimento. Serve soprattutto molta partecipazione.
La partecipazione è indispensabile in un momento così difficile per le imprese e le famiglie italiane, per la qualità della nostra democrazia, insidiata da tentazioni autoritarie e da parole e attacchi volgari e vergognosi a chi difende soltanto la Costituzione.
Più italiani verranno nelle piazze e nei circoli il 25 ottobre, più italiani verranno quel giorno a votare alle Primarie per scegliere il segretario del Partito, più forte sarà la nostra opposizione, più forti saremo tutti insieme per respingere gli attacchi vergognosi alla nostra Costituzione.
Anche per questo che il PD, che noi dobbiamo aprirci ancora di più e non rinchiuderci.
Ci sono risorse vitali nella società italiana che meritano un nuovo protagonismo, che sono pronti a collaborare per le grandi sfide dell’Italia.
Penso alla cittadinanza attiva, al mondo del volontariato, dell’associazionismo, che ho incontrato nella prima tappa del mio viaggio attraverso l’Italia, alle energie giovani dell’immigrazione che ho incontrato a Genova.
Il Partito democratico è nato anche per questo.
Il suo profilo, la sua natura corrispondono a questa domanda profonda di cambiamento. Di una nuova qualità anche della politica.
E’ un impegno che sento profondamente.
Quando parliamo dell’Italia, del suo futuro, di quello che bisogna migliorare, di quello che non possiamo più tollerare, pensiamo sempre a quello che devono fare gli altri.
Alle regole che devono valere per gli altri.
Noi non faremo più così.
Per cambiare l’Italia cambieremo noi stessi.
Metteremo in circolo i nostri talenti
Cominceremo a costruire insieme un futuro che riconosca le speranze attorno a noi.
E sappiamo che non c’è più tempo da perdere.
Che dobbiamo cominciare.
Adesso.

Bra 09.10.09

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