Oggi la Consulta inforca un paio d’occhiali per esaminare il Lodo Alfano. In una Repubblica ideale questo giudizio si consumerebbe nel silenzio degli astanti.
Nella nostra Repubblica reale è accompagnato viceversa da boatos, dichiarazioni sempre un po’ sopra le righe, sit-in di protesta preventiva, addirittura la minaccia d’elezioni anticipate. Sicché spegniamo l’audio, e proviamo a raccontare i termini giuridici su cui è chiamata a esprimersi la prossima decisione di legittimità costituzionale.
L’oggetto, innanzitutto: e dunque il Lodo. Figlio a sua volta del Lodo Schifani (legge n. 140 del 2003), che circondava di una speciale immunità le cinque più alte cariche dello Stato, e che fu poi decapitato dalla mannaia della Consulta (sentenza n. 24 del 2004). Tornando nella stanza dei bottoni, il centrodestra l’ha riapprovato in una nuova edizione (legge n. 124 del 2008), escludendo dal beneficio il presidente della Corte costituzionale, dichiarando il beneficio stesso rinunziabile a domanda dell’interessato, infine ponendo un limite di tempo alla sua fruizione. Ne rimane tuttavia invariata la sostanza: ovvero la sospensione di ogni processo sui reati comuni del Premier, del Capo dello Stato, dei presidenti di Camera e Senato. E si conserva perciò inalterata la domanda: è giusto o no che quattro eccellentissimi signori siano sottratti alle regole che valgono per tutti i cittadini?
Dietro le quinte del giudizio di legittimità costituzionale c’è dunque una questione d’eguaglianza. Sarà per questo che il Lodo Alfano ha subito innescato odi e furori, riattizzando i malumori del popolo italiano per i privilegi della Casta. Sennonché – diceva Aristotele – si danno due specie di eguaglianza: c’è un’eguaglianza «aritmetica» (la stessa cosa a tutti) e ce n’è una «proporzionale» (la stessa cosa agli stessi). E infatti la nostra Carta fa spazio a entrambe le categorie: alla prima quando afferma che tutti sono eguali al cospetto della legge (art. 3), alla seconda quando aumenta il prelievo fiscale per i ricchi, rendendo la tassazione progressiva (art. 53).
Quale eguaglianza riflette il Lodo Alfano? Indubbiamente la seconda; si tratta però di stabilire se è ragionevole isolare una categoria di diseguali (le alte cariche istituzionali) rispetto al consorzio degli eguali. In altre parole: chi sono «gli stessi» di cui parlò Aristotele? Stando alla sentenza che a suo tempo la Consulta pronunziò sul Lodo Schifani, la risposta è perentoria: sono l’intero plotone dei ministri, sono la squadra di mille deputati e senatori che s’esibisce in Parlamento. Disse la Corte: il lodo viola il principio d’eguaglianza perché «distingue, per la prima volta sotto il profilo della parità riguardo ai principi fondamentali della giurisdizione, i presidenti delle Camere, del Consiglio dei ministri e della Corte Costituzionale rispetto agli altri componenti degli organi da loro presieduti». Insomma Berlusconi non è Obama: nel nostro ordinamento chi guida l’esecutivo è solo un primus inter pares, non c’è ragione di forgiargli una corazza più robusta di quella che indossano i ministri.
Se adesso la Consulta confermerà la sua precedente decisione, vorrà dire che il principio d’eguaglianza in Italia rimane obbligatorio quantomeno fra i membri della Casta. In questo caso possiamo ipotizzare due scenari. Primo: il lodo per i presidenti, e non per i peones, potrà adottarsi ancora (d’altronde non c’è due senza tre) nella forma della legge costituzionale. Significa che verrebbe esposto all’alea di un referendum prima d’entrare in vigore, con tutti i rischi politici del caso. Secondo: si riscrive il Lodo e lo si estende anche ai peones. In questo caso la legge ordinaria sarebbe sufficiente; chissà se basteranno invece i pomodori.
La Stampa, 6 ottobre 2009
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