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“Ma non chiamatela calamità”, di Giovanni Valentini

Una valanga scura di fango, macerie e detriti che invade le strade, sbriciola i muri, travolge le auto, ghermisce case e negozi, sommerge porte e finestre.
Se non le avete ancora viste, andate a sfogliarle una per una su Repubblica.it le foto di Giampilieri, frazione di Messina sulla costa dello Stretto, scattate il 26 ottobre 2007. È una retrospettiva di immagini impressionanti, la documentazione fotografica di un disastro annunciato che purtroppo s´è ripetuto ieri con la puntualità irrevocabile della rovina e della morte, provocando un´altra strage nella memoria dolente del Malpaese.
Sono passati due anni da quell´avvertimento e, per ammissione dello stesso comandante in capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, non è stato fatto niente per prevenire ed evitare un tragico replay. Per incuria, per abbandono, per irresponsabilità di tutti coloro, amministratori locali, politici nazionali, uomini e donne di governo, che avrebbero dovuto intervenire per tempo.
Di quale autonomia si appropria allora il presidente della Regione Sicilia, Raffaele Lombardo, se proprio sul suo territorio un nubifragio arriva a uccidere tanti cittadini inermi? Di quale ambiente si occupa il ministro dell´Ambiente, Stefania Prestigiacomo da Siracusa, quando proprio nella sua isola un´alluvione può generare una tale catastrofe? E soprattutto, di quale Ponte sullo Stretto vagheggiano i governanti del centrodestra, mentre non si riesce neppure a proteggere le colline e le strade che franano sotto la pioggia proprio in quell´area?
Ha perfettamente ragione il Capo dello Stato a invocare maggiore sicurezza piuttosto che «opere faraoniche». C´è una sproporzione intollerabile fra la retorica megalomane delle cosiddette grandi opere e l´ignavia rituale delle piccole opere, quelle normali, regolari, quotidiane, che sarebbero utili per impedire il saccheggio del territorio; la speculazione edilizia e la cementificazione selvaggia; o soltanto per provvedere alla manutenzione ordinaria dei paesi, delle città, delle infrastrutture. Un gap indecente intessuto di affari, di abusi e di scempi che producono un danno irreparabile all´intera collettività: alla popolazione, innanzitutto; ma anche all´ambiente naturale, al paesaggio o perfino al turismo e quindi all´economia.
È proprio il governo del territorio che manca o difetta, e non certo da ieri né soltanto in Sicilia, nell´amministrazione pubblica nazionale. Tanto più in un Mezzogiorno d´Italia abbandonato a se stesso, relegato nel suo progressivo degrado, consegnato all´emarginazione dell´illegalità e della criminalità organizzata. E nonostante i ricorrenti e accorati appelli del presidente della Repubblica, l´antica e irrisolta “questione meridionale” sembra rimossa ormai dall´agenda nazionale, dall´ordine del giorno di un governo d´ispirazione nordista, dominato da una preminente tendenza separatista o addirittura secessionista.
Ma il peggio è che non impariamo niente dai disastri, dalle catastrofi, dalle tragedie precedenti. Dalle alluvioni, dalle frane, dai terremoti. Senza disconoscere qui l´impegno profuso in Abruzzo dal governo di centrodestra, dalla Protezione civile e dai volontari, alla fine il trionfalismo mediatico sembra prevalere sul senso del rigore e della responsabilità, in una sorta di reality permanente, uno show autocelebrativo finalizzato più che alto a fare ascolti e a raccogliere voti.
Vogliamo costruire nuovi ponti e nuove autostrade, ma non abbiamo strade sicure e non riusciamo a fare una manutenzione regolare nelle grandi città nemmeno per coprire le buche o riparare i marciapiedi. Vogliamo i treni ad alta velocità, ma quelli dei pendolari sono indegni di un Paese civile e gli altri per lo più scomodi e sporchi. Vogliamo installare le centrali nucleari, ma la rete elettrica fa acqua da tutte le parti e intanto produciamo meno energia solare della fredda Germania.
In un Paese senza catasto edilizio, o con un catasto a dir poco obsoleto, non c´è una mappa aggiornata delle zone a rischio idrogeologico; un censimento effettivo delle aree pericolanti; un registro o un inventario completo delle tante Giampilieri che al nord, al centro o al sud, insidiano l´assetto del territorio. E soprattutto, non c´è un protocollo ufficiale, regione per regione, su cui pianificare un programma di interventi mirati per la difesa del suolo, in base a una scala di priorità.
Queste non sono calamità naturali. Eventi imprevedibili o incontrollabili. Sono colpe e omissioni che chiamano in causa precise responsabilità politiche, amministrative e spesso anche giudiziarie.

La Repubblica, 3 ottobre 2009

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Sull’argomento segnaliamo anche questi articoli da La Stampa

“Non diteci che nessuno sapeva”, di Mario Tozzi

E’ proprio un Paese bizzarro l’Italia, pensate che d’autunno piove – qualche volta a lungo -, i fiumi straripano e le tempeste mangiano le spiagge. E pensate che, se avete costruito nel letto di un fiume, ci sono buone probabilità che la vostra casa venga spazzata via per colpa delle alluvioni. Un fenomeno nuovo, si potrebbe pensare, mai segnalato finora, specialmente nel Mezzogiorno: chi potrebbe immaginare che intere colline d’argilla franino a mare portandosi con sé case e persone? Non serviva un geologo, bastava un archivista che avesse rovistato nei documenti comunali.

Per sancire come le frane siano un fenomeno comune, esattamente come le mareggiate, nel Messinese: le ultime quattro vittime nel 1998, appena a Nord della città. Ma in Italia avviene, in media, uno smottamento ogni 45 minuti e periscono, per frana, di media, sette persone al mese. Già questo è un dato poco compatibile con un Paese moderno, ma se si scende nel dettaglio si vede che, dal 1918 al 2009, si sono riscontrate addirittura oltre 15 mila gravi frane. E non solo frane, ma anche alluvioni (oltre 5 mila le gravi, sempre dal 1918), spesso intimamente connesse agli smottamenti. Questo nonostante oggi la protezione civile sia molto più efficiente di solo venti anni fa. Le frane sono un fenomeno naturale, ma non lo sono le migliaia di morti né le azioni dell’uomo che le innescano al di là delle condizioni naturali.

Tutto questo era ben noto fino dal tempo della commissione De Marchi, che fotografò, per la prima volta in modo organico (nel 1966), il dissesto idrogeologico del territorio italiano in otto volumi in cui si suggerivano anche alcuni interventi indispensabili e ritenuti urgenti fino da allora. Sono passati decenni e c’è ancora chi si stupisce oggi. Non solo: la situazione è stata aggravata dalla massa assurda delle nuove costruzioni, da centinaia di chilometri di strade, da disboscamenti insensati e dagli incendi mirati, dai condoni edilizi che espongono al rischio migliaia di cittadini che hanno scelto deliberatamente di delinquere. Ma come volevate che finissero quelle case, magari abusive, che strozzano i letti dei corsi d’acqua, come dovevano finire i viadotti troppo bassi, le strade e il cemento che hanno sclerotizzato il territorio?

Eppure – a differenza dei terremoti – le frane possono essere previste e i nomi sono già storia: Ancona (1982), il Monte Toc al Vajont (1963), la Valtellina (1987), Niscemi (1997), Sarno (1998), l’autostrada del Brennero (1998), Soverato (2002) e così via disastrando. Secondo il Cnr il totale del territorio a rischio di frane, o comunque vulnerabile dal punto di vista idrogeologico, in Italia, è pari al 47,6%. Quasi il 15% del totale nazionale delle frane, e quasi il 7% delle inondazioni, avviene in Campania (1600 in 75 anni), dove 230 Comuni su 551 sono a rischio di smottamento. La superficie vulnerabile per frane e alluvioni è, in Campania, pari al 50,3% del territorio regionale.

Il Trentino sfiora l’86% – in vetta alla graduatoria -, le Marche arrivano all’85% e il Friuli è ben sopra il 50%: resta da chiedersi come mai però nel Mezzogiorno quel rischio potenziale si traduce più spesso che altrove in catastrofe, con Basilicata, Calabria e Sicilia che vanno comunque oltre il 60% del territorio a rischio. Ma la risposta la conosciamo già: l’incuria del territorio è qui diventata prassi quotidiana, perché gli amministratori preferiscono costruire un’opera pubblica, anche se inutile, purché si veda e porti consenso: chi si accorgerà invece di una manutenzione ordinaria, spesso invisibile, del territorio?

Per non parlare dell’incivile tolleranza all’abusivismo o dell’ignoranza di qualsiasi principio fisico che informi il territorio: che ne sanno gli amministratori che una frana è uno spettacolare esempio di un fenomeno geologico del tutto naturale, che porta al trasferimento di materiale dall’alto in basso grazie alla forza di gravità? E che le cause generali delle frane sono molte, ma, in tutto il mondo, l’intervento dell’uomo gioca un ruolo fondamentale? Fra qualche giorno nessuno ricorderà i morti di Messina e si continuerà a inseguire il sogno di un ponte inutile che renderà ineluttabile il dissesto idrogeologico, quando non vedrà compromessa addirittura la stabilità complessiva di un intero settore della penisola. Stornando risorse che dovrebbero essere spese per salvare vite e non per inseguire follie faraoniche.

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«Il sacco della Sicilia», di Francesco La Licata

Sembrava solida la villetta bianca di Giampilieri. L’aspetto era gradevole, con quelle serrande celesti come il cielo quando il tempo è bello. Ora sembra l’icona della tragedia: pencola a sinistra, dopo che acqua e fango hanno spazzato via gran parte delle fondamenta che poggiavano sulla creta incerta.

È l’immagine fedele di un territorio devastato, massacrato dalla furia della corsa al cemento. Oggi a Messina, nel 1966 ad Agrigento che ha visto scivolare via interi quartieri, qualche mese fa a Caltanissetta dove l’ospedale San Giovanni di Dio si è sgretolato rivelando tutta la precarietà di un cemento «taroccato». E’così il territorio siciliano. Lo sanno tutti che le piogge tumultuose hanno facile sopravvento sulle strutture, anche le più moderne, e su una natura debilitata dalla cementificazione selvaggia, dagli argini artificiali imposti ai corsi d’acqua essiccati per far posto al business, dal disboscamento irrazionale e, ancora, dall’avvento del cemento «allungato», incapace di svolgere il ruolo che gli compete.

Sembra una balla eppure è così: la mafia non solo governa ogni tipo di abuso, non solo cambia i piani regolatori per dar forma a veri e propri aborti urbanistici. Non solo tutto questo, adesso cementifica con molta sabbia e poco ferro. E tutto per imporre i modelli edilizi che abbiamo imparato a conoscere a Gela, a Bagheria, a Castellammare, a Termini Imerese, ad Agrigento e lungo le campagne infestate da orribili viadotti, giusto per fare gli esempi più clamorosi. Così ogni anno cadono nel vuoto i saggi ammonimenti, gli allarmanti rapporti di Legambiente, di tutti gli ecologisti e di buona parte degli amministratori più coscienziosi. E’ dura la battaglia contro le ecomafie, perché il nemico non è soltanto il cattivo con la coppola. Spesso siamo noi, le vittime, i migliori alleati dei boss. Noi che ci crediamo furbi se «alziamo» dove non è permesso e aspettiamo la «legge buona» per ottenere un piano in più, magari consigliati da qualche amministratore comprensivo.

Prendiamo la storia di Pizzo Sella, a Palermo. Una montagna tutt’altro che solida, coperta da «simpatiche villette» messe su da costruttori non certo inappuntabili, in un luogo dove non c’era un filo d’erba, senza gli allacciamenti di acqua, luce e fogne (arriveranno in seguito, quando gli acquirenti si erano già resi conto di essere stati gabbati). La telenovela giudiziaria che ne seguì è quella classica, annosa: il solito ping pong fra accusa e difesa, ordini di demolizioni via via ammorbiditi, insomma l’eterno accomodamento. È facile scandalizzarsi, più difficile è continuare ad esserlo fino alla rimozione dello scandalo. Ricordate l’ospedale San Giovanni Di Dio ad Agrigento? Vent’anni per costruirlo e 38 milioni di euro, scrive il rapporto Legambiente dello scorso luglio. Ecco, a cinque anni dall’inaugurazione, gli esperti mandati a controllarne la stabilità hanno scoperto che la «resistenza alla compressione» non è quella indicata nel progetto. In parole povere l’edificio è a rischio crollo. Ventidue avvisi di garanzia e ospedale dimezzato.

In questo caso non si tratta solo di dissesto geologico. La vicenda agrigentina prova che oltre alla «normale» ingordigia mafiosa si è aggiunta la «trovata» di guadagnare ancora di più «allungando» la materia prima delle costruzioni (sia private che opere pubbliche): il cemento prodotto dalle innumerevoli «Calcestruzzi». Ecco, la mafia sfascia il territorio con l’insana gestione delle cave («Le cave sono tutte in mano a noi», raccontava ai giudici, nel lontano 1992, il pentito Leonardo Messina). Ma poi non si accontenta: trucca gli appalti, si aggiudica i lavori e li fa eseguire alle proprie imprese col «cemento allungato».

Illuminanti alcune vicende giudiziarie. Proprio a Messina la magistratura ha sequestrato la Messina Calcestruzzi Srl, 40 automezzi, 39 immobili per una valore di 50 milioni di euro, di proprietà dei fratelli Pellegrino. A Messina costruivano solo loro, scrivono i magistrati. Ma con cemento scarso, mettendo a repentaglio gli edifici della città. Anche il cemento utilizzato per la costruzione di un Centro Commerciale a Contesse non era dei migliori e neppure quello dell’approdo di Tremestieri. Resisterebbero, queste costruzioni, ad un nubifragio? Cosa potrebbe accadere in un territorio a così alto rischio sismico?

Stessi accertamenti sono stati eseguiti su altre imprese: presso l’azienda di Borgetto (Palermo) di Benny Valenza, detto il «re del cemento». Solo che anche quello appariva “depotenziato”, col risultato di dover eseguire accurati controlli sulle opere pubbliche di mezza Sicilia: gli aeroporti di Palermo e Trapani, il porto turistico di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo, il costruendo commissariato di polizia di Castelvetrano, paese natale di Matteo Messina Denaro. Secondo il rapporto di Legambiente, ancora, a rischio sono trenta capannoni dell’area industriale di Partinico. E che dire della Calcestruzzi Spa, emanazione sicula del colosso di Bergamo? E la Calcestruzzi Mazara Spa? Aziende alle prese con la giustizia: processi lunghi e lavori a rischio. Esiste addirittura una black list delle opere pubbliche sospettate di «cemento truccato». Fa paura, questa black-list: viadotto di Castelbuono (Pa); la galleria Cozzo Minneria dell’autostrada Messina-Palermo; la superstrada Licata-Torrente Braemi ad Agrigento; il Palazzo di Giustizia di Gela e il padiglione nuovo dell’Ospedale di Caltanissetta. Altro che nubifragio.

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