E adesso, onorevole Fassino, che succede: il Pd che sostiene Franceschini si appellerà alla società civile per ribaltare il volo degli iscritti?
«E io controreplico: possiamo noi avere un segretario non riconosciuto dagli elettori, o che addirittura ne ha paura?».
Piero Fassino è nel suo studio al Nazareno, ha appena finito di ascoltare l’intervento di Dario Franceschini ai giovani e sta per andare a un ricevimento all’ambasciata tedesca. Sul tavolo una massa di dati e percentuali sui congressi di circolo appena conclusi ai quali l’ultimo segretario dei Ds ha partecipato in gran numero.
A queste primarie comunque ci andate avendo perso tra gli iscritti.
«Hanno votato in circa 450 mila, e parlerei di un risultato sostanzialmente equilibrato».
Beh, venti e passa punti di distacco in percentuale non danno l’idea dell’equilibrio.
«Al tempo. Bisogna analizzare bene i voti assoluti, non solo le percentuali. E dunque: se andiamo a vedere i voti reali di 13 regioni su 16 dove ha vinto Bersani, si scopre che la differenza non va oltre i 5 mila voti. Con forchette anche assai più basse come in Veneto (meno 1.500 voti), in Umbria (meno 1.400), in Toscana (meno 3 mila), nelle Marche (meno 500)».
Lei parla di 13 regioni, ma Bersani ha vinto in 16.
«Ci arrivo, e proprio per cogliere un altro aspetto di fondo di questo voto: metà del vantaggio in consensi di Bersani viene da Campania, Calabria e Puglia, dove peraltro c’è materia di riflessione sul fatto che il numero di iscritti che è andato a votare non è, diciamo così, proporzionale al consenso elettorale».
Ma a quei 450 mila iscritti che sono andati a votare, che significato attribuire?
«Un grande fatto democratico. In uno scenario in cui i partiti spesso sono solo macchine di propaganda al servizio di un solo leader come il Pdl, che centinaia di migliaia di persone discutano. dibattano, votino, scelgano, è sicuramente un fatto che avvicina la gente alla politica e quindi aiuta la democrazia».
Si è riproposto lo schema che gli ex Ds han votato Bersani e gli ex Margherita Franceschini?
«Nient’affatto. In tre delle quattro storiche regioni rosse, Umbria, Toscana, Marche, il differenziale tra i due è di poche migliaia di voti, quindi molti ex Ds hanno scelto Dario. Lo stesso dimostra il voto del Lazio».
E perché gli elettori dovrebbero ribaltare il voto degli iscritti? Non sarebbe più logico ipotizzare una conferma?
«Le primarie sono del tutto aperte, anzi apertissime. Se la differenza in termini di voti assoluti è così bassa, si capisce che basta un niente, bastano piccolissimi spostamenti per cambiare completamente il quadro. Franceschini può farcela, sono sicuro che ce la farà».
Anche dal fronte Bersani si stanno preparando, no?
«Immagino. Loro però in tutti i congressi di circolo han fatto appello agli iscritti contestando che gli elettori dopo debbano concorrere alla scelta del segretario. Si apre per loro un doppio problema. Primo: ora la mozione Bersani dovrà fare appello anche agli elettori dopo aver spiegato in lungo e in largo che il loro modello di partito non lo prevede. Che significa: che se vince Bersani è l’ultima volta che si ricorre agli elettori? Secondo, e più importante e dirimente: può un partito avere paura dei propri elettori? Gli elettori del Pd sono parte di noi, sono quelli che ci han dato fiducia, che guardano a noi, non sono estranei».
La società civile, o comunque la base larga degli elettori, legittima il leader del Pd?
«Quanto più è larga la base di legittimazione di un leader, tanto maggiore sarà la sua autorevolezza. Sbaglio o i mass media, come primo parametro delle primarie, andranno a vedere quanta gente è andata ai seggi?».
Perché votare Franceschini? Che Pd prefigura?
«Franceschini rappresenta meglio il carattere plurale del Pd, un partito nato per fondere, unire le varie culture riformiste per andare oltre. Solo un Pd largo e plurale è in grado di raccogliere ampi consensi».
E votando Bersani, che Pd si sceglie?
«Attorno a Pierluigi si è raccolto prevalentemente un voto identitario, e come tale destinato a restringere la base di consenso. Se fra i numeri fai prevalere una sola tradizione, se non scommetti sugli apporti più varie plurali, il consenso inevitabilmente si restringe».
E le alleanze?
«Le differenze stanno non sul se farle, ma sul modo, nessuno pensa di raggiungere da soli il 51 per cento. Due punti devono essere chiari: le alleanze gli elettori devono conoscerle prima di andare a votare, non dopo; secondo: una nuova legge elettorale non deve comunque farci tornare ai 39 partiti e 17 gruppi parlamentari di prima, mentre adesso, grazie anche al Pd, ci sono solo 6 gruppi».
Il Messaggero, 2 ottobre 2009