La Stampa ha pubblicato negli ultimi giorni due storie esemplari: quella dell’avvocato Loredana Ionita, romena residente a Torino, dove si è trasferita otto anni fa, e dove ha fatto, anche da clandestina, quattro mestieri, compreso quello di badante, prima di veder riconosciuti i titoli di studio che aveva conseguito nel suo Paese e di venire iscritta all’Ordine degli Avvocati torinese. E quella di Massimo Tagliati, che in Piemonte è giunto quarant’anni fa dal Veneto.
Non sapeva l’italiano, ma solo il suo bel dialetto, e la sua prima maestra lo cacciò di classe definendolo «un selvaggio». Ha «lottato con caparbietà» per arrivare a essere accettato, ora fa un lavoro dignitoso e si è fatto una famiglia e degli amici.
Commentando questa lettera, Mario Calabresi ha osservato che il tema dell’integrazione «sta diventando il più sentito dai lettori, quello che appassiona e divide di più». Lo è, e non da ieri, ma da diversi decenni.
Torino è stata, nel ricco Nord-Ovest, forse ancor più di Milano, l’«America» per moltitudini di emigranti venuti dalle regioni più povere d’Italia, e poi del mondo. Prima dei meridionali furono i contadini veneti, fin dagli Anni Trenta, a venire a cercare la fortuna nella città dell’auto. Questo giornale, fedele alla vocazione democratica e liberale sua e della città, ha sempre svolto un ruolo responsabile nel favorire il processo di «integrazione» dei nuovi arrivati, non sempre facile in una società dalla forte identità e piuttosto orgogliosa delle sue tradizioni; ma sempre assai civile (ricordate quando si pubblicava in pagina di cronaca la «Posta Nord-Sud»?).
Un fenomeno che divide
«Integrazione» è parola corretta. Ma non esprime la drammaticità e complessità di un fenomeno che ancora «divide», oggi forse più che mai. L’Italia non conosceva afflussi di massa di popolazioni straniere dai tempi delle invasioni barbariche; e solo da pochi anni, ultima tra le grandi nazioni dell’Europa ricca, è diventata la meta di moltitudini di emigranti in cerca di fortuna. Molti di loro, per lo più, sono decisamente «abbronzati». E anche se sappiamo bene, o dovremmo sapere, che i nuovi arrivati sono essenziali per la crescita della nostra economia e del nostro benessere, molti di noi rimangono turbati e offesi dal contatto con tanti «diversi».
Nel libro di terza elementare di mio nonno (nato nel 1858), che veniva ancora conservato nella biblioteca di casa, noi ragazzi leggevamo, trovandolo molto divertente, un dialogo tra padre e figlio che diceva così: «Padre, ieri mi venne veduto un uomo nero. Figlio, quell’uomo è un negro. Padre, ma io ho paura. Figlio, ma anch’egli è figlio di Dio». Noi, all’epoca, gli uomini neri li avevamo visti solo nei film americani, dove la loro parlata veniva doppiata con un accento che faceva ridere. Gli unici «non bianchi» che conoscevamo erano i cinesi che vendevano «clavatte una lila» agli angoli delle strade, e non facevano paura.
Poi, nel corso della mia vita (sono stato emigrante anch’io) ho incontrato tante dure realtà di immigrati, o di «diversi», che aspiravano a «integrarsi», a essere riconosciuti come eguali, e che venivano visti con paura o con disprezzo.
Il dramma degli immigrati
Non ho l’età per avere assistito al grande dramma della nostra emigrazione disperata nelle Americhe, ma non l’ho certo dimenticato, come l’hanno dimenticato la maggior parte dei miei compatrioti: cosa di cui non so capacitarmi. Ma non vi rendete conto che il dramma odierno degli immigrati in Italia era stato prima il nostro identico dramma? E che buoni cristiani siete, per disprezzare «lo straniero che vive in mezzo a noi», invece di amarlo, come prescrive duramente la vostra fede?
Ho assistito personalmente, come inviato, nel «profondo Sud» del Mississippi, alle drammatiche giornate dell’autunno 1964, quando la rivoluzione negra faceva i primi passi timorosi, quando i giovani bianchi venuti dal Nord per aiutare i negri a iscriversi per il voto nelle elezioni presidenziali (vinse Johnson) rischiavano a ogni passo di venire ammazzati.
E ne vennero ammazzati tre. Che atmosfera spessa di odio e di paura si respirava a Jackson, soltanto per essere uno straniero bianco, quindi amico dei negri! La rivivo ogni volta che rivedo quel grande film che è Mississippi burning. Quanto lontana, inimmaginabile la meta della parità. Impensabile che dopo mezzo secolo l’America avrebbe eletto un negro Presidente.
L’integrazione è difficile in ogni Stato, in ogni condizione. Perfino in Israele, i profughi delle ondate nordafricana o russa faticano ancora a essere considerati uguali dagli «olim» europei delle prime ondate. E nelle civilissime Francia e Inghilterra si hanno le «rivolte dei ghetti». A maggior ragione bisogna saper favorire, con accortezza e generosità d’animo, nell’interesse loro e nostro (la civiltà nasce da tanti incroci tra genti diverse), l’integrazione dello «straniero che vive in mezzo a noi». Perché anche noi fummo stranieri in terre ostili e lontane.
La Stampa, 2 ottobre 2009