Circolo dopo circolo, si stanno concludendo le votazioni tra gli iscritti del Partito Democratico e il 25 ottobre i tre candidati — Bersani, Franceschini e Marino — saranno presentati al voto degli elettori e dei simpatizzanti: in pratica di chiunque manifesti l’interesse a influire sulla scelta delle cariche direttive del partito. Gia in quella data, o al più un paio di settimane più tardi se sarà necessario un ballottaggio, sapremo chi è il nuovo segretario del Pd. Prima di discutere del significato di questa scelta, tre commenti di natura generale.
Il primo è che hanno partecipato al voto, sinora, circa 350.000 persone, più della metà degli iscritti: non una piccola prova di democrazia, in un momento in cui gran parte dei commentatori danno per spacciato, e con buone ragioni, il ruolo democratico dei partiti. E a questa occorrerà aggiungere la consultazione del 25 ottobre. Il secondo commento è che laddove il partito è maggiormente radicato, nelle regioni rosse e nelle grandi città, nell’ambito dei circoli si è svolto un dibattito serio tra i sostenitori delle diverse candidature: questa volta, a differenza di precedenti investiture pilotate dall’alto, prima del voto gli esiti erano realmente incerti. Oggi il risultato è noto: Bersani ha ottenuto circa il 56%, Franceschini circa il 36 e Marino il restante 8. Ma l’incertezza permane per il voto degli elettori, il 25 ottobre, perché gli iscritti e i simpatizzanti generici sono due popolazioni abbastanza diverse. Il terzo commento è che la linea di divisione tra le posizioni politiche espresse dalle tre candidature non è più quella delle diverse provenienze partitiche, gli ex Ds ed ex Dl: per ognuna di esse il sostegno è molto misto, e segnala un processo di osmosi piuttosto avanzato. Se la linea di divisione non è questa, qual è?
E’ abbastanza facile dirlo per Marino, il vero outsider di questo congresso. Egli è portatore di un messaggio fortemente critico nei confronti delle ambiguità del Pd, che imputa in parte ad un’analisi sbagliata del fenomeno Berlusconi — … come se si trattasse di un avversario politico normale — in parte ad una eccessiva tolleranza per le posizioni clericali o integralistiche che ogni tanto emergono tra gli esponenti cattolici del partito. Questa è l’analisi ribadita ogni giorno dai giornali più letti dal popolo della sinistra e non meraviglia il buon successo della mozione nelle grandi città, tra i giovani e le persone istruite. Insistendo su queste critiche, proclamando una politica della decisione e della nettezza, del ‘Sì-sì’ ‘No-no’ di evangelica memoria, Marino si stacca nettamente dagli altri due candidati e si avvicina alla posizione dell’Idv di Di Pietro, una permanente tentazione per il Partito Democratico.
Più difficile distinguere le altre due mozioni, quelle degli insider, di Bersani e Franceschini, e non è di grande aiuto leggere attentamente i testi, sottolineare frasi più o meno felici, reticenze o silenzi più o meno sapienti: entrambe dicono cose simili, generiche e gradite al popolo di centrosinistra chiamate a votarle. La mozione di Bersani è sicuramente la più critica nei confronti della breve storia del Pd di Veltroni.
Critiche alla segreteria Veltroni implicitamente le muove anche Dario Franceschini, ma il dubbio che suscita la posizione di Bersani è che le critiche non riguardino solo le scelte tattiche del recente passato, ma lo stesso disegno strategico, lo stesso impianto culturale sul quale l’Ulivo prima e il Pd poi sono stati costruiti. In altre parole: il dubbio è che un Pd guidato da Bersani — per ora costretto in un contesto bipolare dalla legge elettorale voluta dal centrodestra — sarebbe ben disposto a mutarlo qualora se ne presentasse l’occasione. In questo caso il senso della storia di cui parla Bersani, il suo possibile esito, sarebbe un ritorno al proporzionale, dove un Pd più nettamente «laico» e «di sinistra » lascia il compito di conquistare gli elettori più moderati a un rinnovato partito centrista, neo-democristiano, confidando poi in una alleanza di governo.
Si tratta di una posizione politica più che legittima, ma è l’esatto opposto della scommessa da cui era partito l’Ulivo e sulla quale si è formato il Partito democratico: quella di un partito di ispirazione democratico-liberale, che nutre l’ambizione di governare il Paese a capo di una coalizione di cui è la componente maggiore e politicamente egemone. Un partito che non vuole nascondersi dietro una forza politica e a un presidente del Consiglio centristi, e rifiuta come scoraggiante e sbagliata l’idea che un partito di centrosinistra non riuscirà mai, in un contesto bipolare, a governare un Paese «organicamente» di centrodestra. Credo che spetti a Bersani chiarire, di fronte a ragionevoli dubbi, se la sua critica al progetto originario del Pd è così radicale. Se lo è, il confronto con Franceschini acquisterebbe un senso molto più chiaro di quello che è possibile desumere dalla lettura delle due mozioni.
Il Corriere della Sera, 1 ottobre 2009