La politica di stimolo degli investimenti ideata dal Governo si muove, schematizzando, sul binomio ricapitalizzazione delle banche – detassazione dell’utile d’impresa in proporzione agli investimenti effettuati, (con decorrenza 2010). La ricapitalizzazione degli istituti di credito viene perseguita attraverso la sottoscrizione, con risorse pubbliche, di obbligazioni emesse dagli istituti di credito (Tremonti Bonds). La detassazione legata agli investimenti viene realizzata escludendo dal reddito d’impresa il 50% degli investimenti in macchinari effettuati nel 2009.
Nonostante l’aumento della liquidità immessa nel sistema bancario e gli incentivi fiscali, gli investimenti, insieme alle esportazioni, mostrano i decrementi maggiori fra le componenti del PIL. Molto meno drammatica appare la caduta dei consumi delle famiglie, anche se si riscontra una riduzione della propensione al consumo dopo anni di continua crescita. Solo la spesa corrente del settore pubblico mostra un aumento. Cerchiamo di valutare, nel contesto economico attuale, l’efficacia degli incentivi ricorrendo ad alcuni concetti della teoria economica e riguardanti alcuni aspetti delle determinanti degli investimenti e del rapporto banche-imprese.
Keynes afferma che sul volume dell’investimento influiscono due tipi di rischio che, comunemente, non sono stati distinti: il rischio dell’imprenditore, o debitore, e il rischio del creditore. Inoltre, le aspettative di un rendimento da parte dell’investitore/debitore possono divergere sensibilmente da quelle del creditore. Non solo la fiducia degli investitori è instabile, ma anche quella dei creditori. Per la ripresa degli investimenti è necessario il miglioramento del giudizio di entrambi i fattori”. In più, Il rischio del creditore comporta, per Keynes, un aumento del costo dell’investimento “oltre il puro tasso di interesse” . Quindi, in un sistema dove imprenditore e fornitore di capitale sono persone distinte, “il rischio dell’imprenditore è incorporato due volte”.
Ciò significa che, ogni qualvolta le politiche di stimolo degli investimenti tengono, o tentano di tener conto, soltanto del rischio dell’imprenditore si assume una forte sottovalutazione del giudizio complessivo di rischio dell’investimento. Un incentivo, per essere efficace, deve convincere, quindi, il creditore e non solo chi realizza l’investimento. Inoltre, in presenza di una caduta della domanda il rischio creditore prevale su qualsiasi aspettativa, anche ottimistica dell’imprenditore-debitore. La deflazione, d’altro canto, accentua gli aspetti di rischio per entrambi, creditore e debitore, causando un aumento della propensione alla liquidità e deprimendo gli investimenti. Non solo le imprese, ma anche le banche, preferiscono rimanere in una posizione wait and see e mantenere al proprio attivo consistenti quote di liquidità, che aumentano di valore per il solo effetto della caduta dei prezzi. In pratica si preferiscono impieghi ad elevata liquidità anche per effetto della deflazione che provoca aspettative di aumento dei tassi reali.
Se queste riflessioni teoriche vengono trasposte nella situazione attuale si può ragionevolmente affermare che con gli incentivi non si riduce il rischio dell’imprenditore e, tanto meno, quello del creditore. Gli incentivi, basati sulla detassazione del reddito di impresa non cambiano minimamente, per usare le parole di Keynes, “il giudizio” del debitore/imprenditore e non possono modificare, quindi, la sua “propensione all’investimento” (si tralasciano qui le considerazioni relative alla riduzione della quota di capacità produttiva utilizzata in una situazione di recessione, considerazioni che aggravano la situazione qui prospettata).
Con la caduta della domanda e in presenza di deflazione occorrerebbe sottoporre a un giudizio critico la politica di incentivi. Questi, per essere richiesti presuppongono già una aspettativa di utile positivo. La propensione a investire dipende, infatti, dalle aspettative rispetto alla domanda, oltre che rispetto alla redditività dell’investimento. Allo stesso tempo, le politiche degli incentivi dovrebbero essere “sdoppiate”: una quota per le imprese e un’altra per le banche. Naturalmente ciò complica l’attuazione di questa misura. Inoltre, si deve contrastare, allo stato attuale, anche la caduta della propensione all’indebitamento, a causa della deflazione, che comporta la prospettiva di aumento della quota di risorse dedicate a ripagare il debito.
Inoltre, a fronte di bassi tassi di interesse che non riflettono il rischio del creditore, abbiamo segni inequivocabili del manifestarsi del razionamento del credito in concomitanza con l’inizio della fase recessiva. Come evidenzia la recente indagine della Banca d’Italia sull’industria, nel 2008 la quota di imprese che avrebbero desiderato un maggiore indebitamento è raddoppiata rispetto al 2007 dall’8 al 16%. La quota di imprese che hanno incontrato intermediari non disponibili è passata dal 3 all’8,3% e quelle che sarebbero disposte a pagare un aggravio di costo pur di incrementare il proprio indebitamento è passato dal 3,4% del 2007 all’8% (il 10,3% nel Mezzogiorno rispetto al 4,2% nel 2007). In generale, nell’area dell’Euro, nonostante l’Eurosistema abbia continuato a offrire al sistema finanziario abbondante liquidità, attraverso le operazioni di rifinanziamento, e sebbene nel secondo trimestre del 2009 si sia riscontrato un dimezzamento della quota di banche che hanno irrigidito i criteri per la concessione dei prestiti, si riscontra ancora “un grado significativo di irrigidimento netto dei criteri per l’erogazione del credito in un contesto in cui i flussi creditizi netti sono contenuti e in parte negativi”. Questo, nonostante l’eccedenza di liquidità, cioè la differenza fra la liquidità in essere e l’effettivo fabbisogno, avesse raggiunto, a giugno 2009, “un volume record”.
In questa situazione, non solo gli incentivi alle imprese rappresentano una misura decisamente parziale, ma saranno probabilmente inefficaci a causa della maggiore preferenza per la liquidità in situazioni di incertezza e di processi deflazionistici. Occorrerebbero misure, quindi, per aumentare il costo opportunità della propensione alla liquidità. Una possibile misura potrebbe consistere nella combinazione di imposta patrimoniale sulla liquidità e di sussidio diretto all’investimento in modo da operare un aumento del costo opportunità della liquidità. Il che equivale, dal punto di vista keynesiano, a conseguire una riduzione del tasso di interesse richiesto come premio per la rinuncia alla liquidità.
Conclusione
La politica degli incentivi fiscali agli investimenti presuppone l’esistenza di una propensione all’investimento basata sull’attesa di un utile positivo. Inoltre, per essere efficaci, gli incentivi devono superare il doppio ostacolo del rischio dell’investitore e quello del creditore. Infine, in una situazione di deflazione e di bassi tassi di interesse, le aspettative sono quelle di un aumento del tasso di interesse reale determinando un aumento della propensione alla liquidità.
In questo contesto gli incentivi agli investimenti devono, allo stesso tempo, attenuare il rischio dell’investimento e aumentare il costo opportunità della liquidità. Cercando di individuare altre vie per incentivare gli investimenti produttivi è stata avanzata la proposta di combinare una imposta patrimoniale sulle attività liquide di imprese e banche con sussidi diretti in proporzione all’incremento degli investimenti netti.
NelMerito.com, 22 settembre 2009