attualità, lavoro, politica italiana

“Battaglia decisiva”, di Claudio Sardo

La riforma del mercato del lavoro contiene novità positive e misure, benché parziali, volte a correggere antiche storture (ad esempio sul lavoro femminile). Anche nel contrasto al precariato e in tema di ammortizzatori sociali ci sono segni incoraggianti, da rafforzare in Parlamento. L’articolo 18 non è tutto. Ma il vulnus del governo sull’articolo 18 è così grave da oscurare quel che di buono c’è nella riforma. Per questo va cambiato. La gravità sta innanzitutto nel merito: se il licenziamento per motivi economici, per quanto immotivato, consentisse comunque all’impresa medio-grande di liberarsi (salvo indennizzo) di un lavoratore, è chiaro che verrebbe stravolto l’equilibrio dei diritti.
Verrebbe stravolto a danno del dipendente. E non sarà certo un passaggio formale all’Ufficio del lavoro a scongiurare l’abuso. Luigi Mariucci spiega bene sul giornale di oggi perché, sul punto, le prime toppe cucite dal governo rischiano di essere peggiori del buco. C’è invece un modo semplice per evitare gli arbitrii: consentire al giudice la facoltà di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Attualmente il reintegro è la sola sanzione al licenziamento senza giusta causa: offrire al giudice il duplice strumento, reintegro o indennizzo, è un elemento di flessibilità tutt’altro che disprezzabile, tanto che fino a poco tempo fa veniva invocato come frontiera del riformismo e dell’innovazione.
È grave, e anche preoccupante, che il governo abbia imboccato una via di ostilità, anziché la ricerca di maggiore coesione. Lo è ancor più davanti alle aperture che giungevano dal movimento sindacale, Cgil compresa. La ragione politica dello «strappo» compiuto dal governo è tuttora una questione aperta che riguarda il destino della legislatura e il rapporto con le forze che sostengono l’esecutivo. La disponibilità di Monti a correzioni in Parlamento, rafforzata dal saggio patrocinio del Capo dello Stato, è senza dubbio positiva: speriamo che si arrivi a una completa riparazione del danno, perché altrimenti verrebbero compromesse le fondamenta di questa stagione di convergenza nazionale. Di certo non ha senso giustificare il premier, come fanno alcuni, perché intanto ha voluto lanciare un messaggio forte ai mercati (nel senso di esibire uno «scalpo»). Il premier avrebbe potuto mostrare da subito assai di più: un consenso ampio attorno a una riforma così importante. L’Italia è più forte con la coesione sociale: basta ricordare i tempi del governo Ciampi.
Peraltro lo squilibrio di questa modifica all’articolo 18 tocca principi costituzionali, che sono essi stessi valori di coesione. L’Italia è una Repubblica «fondata sul lavoro» espressione del personalismo cristiano e delle culture solidariste e pone dubbi radicali una norma concepita al solo scopo di monetizzare un licenziamento, anche quando questo costituisca un abuso. Reintrodurre il reintegro tra le facoltà del giudice, insomma, è necessario. In ogni caso non c’è alcun interesse nazionale alla frattura sociale, tanto più se la convergenza è possibile attorno a un testo di segno riformista.
Ha scritto bene Stefano Folli sul Sole 24 ore: «Davvero la sconfitta della Cgil e la spaccatura del Pd sono obiettivi più importanti del varo di una riforma decente?». Purtroppo c’è un coro di cattivi consiglieri che continua a inseguire il premier, ripetendo la favola di un centrosinistra che detesta l’impresa e regredisce nel vetero-laburismo. Che c’entra il disprezzo verso l’impresa con la constatazione che una modifica dell’articolo 18, come formulata nel ddl attuale, sarebbe un’obiettiva «facilitazione» dei licenziamenti? Per fortuna il neo presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha usato parole di verità nel dire che «non è l’articolo 18 a fermare lo sviluppo italiano» e che la Cgil rappresenta per lui un interlocutore «ragionevole» («Non è mai stato un problema trovare un’intesa anche più vantaggiosa di quella raggiunta da altri in altre condizioni»).
Squinzi poteva avere convenienza a non esporsi così oggi. La sua onestà intellettuale fa ben sperare. Per riportare l’Italia in serie A c’è grande bisogno di coraggio e di serietà. È giusto che l’impresa sia aiutata a crescere e produrre ricchezza, è giusto che ognuno difenda i propri interessi, ma guai a perdere di vista il bene comune. La coesione sociale è uno dei beni più preziosi. Dopo quanto è accaduto non sarà facile rimediare al vulnus dell’articolo 18 e consentire così alla riforma di liberare le potenzialità positive. Bisognerà lottare. Dentro e fuori il Parlamento. Purtroppo il Pdl continua a occuparsi più dei possibili danni al Pd che non degli interessi del Paese. Tuttavia cresce il consenso al cambiamento di quella norma ingiusta. Il passaggio è decisivo. Perché si tratta di ricondurre il governo Monti alla sua missione originaria: un governo di transizione che affronta l’emergenza sulla base di una larga convergenza e non un laboratorio di confuse operazioni politiche. E perché è ora di mettere finalmente in cima all’agenda il tema della crescita.

L’Unità 25.03.12

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“UN ARRETRAMENTO PERSINO RISPETTO ALLA LEGGE DEL 1966”, di Luigi Mariucci

Alcune parti del documento sul mercato del lavoro appaiono positive (ad esempio su lavoro femminile, disabili e immigrati). Per questo colpiscono ancora di più alcune evidenti brutture. Più in generale la sensazione è che tra le due parti più strutturali dell’intervento, tralasciando qui la questione ammortizzatori, vi
sia un forte sbilanciamento. Nel linguaggio asettico del governo questi due capitoli sono denominati «flessibilità in entrata» e «flessibilità in uscita». Si dovrebbe dire, da un lato, «il modo faticoso con cui forse si può ottenere un contratto di lavoro decente, quando il lavoro scarseggia». E, dall’altro lato, «il modo più facile con cui si può essere licenziati nelle imprese con più di 15 dipendenti».
Nella prima parte dell’intervento, quello relativo alle forme di assunzione, si adottano un insieme di interventi utili, tuttavia nel segno di una pregevole quanto modesta manutenzione, non di un
cambiamento strutturale.
Nella seconda parte, quella sui licenziamenti, il cambiamento è invece profondo: altro che manutenzione! Si introduce infatti una radicale riscrittura dell’articolo 18. Si introduce una differenziazione di trattamento tra i diversi tipi di licenziamento: discriminatorio, disciplinare (ovvero per giustificato motivo soggettivo) e economico (ovvero per giustificato motivo oggettivo). Sui licenziamenti discriminatori
nulla cambia: già ora, se si riesce a provare la discriminazione, questi licenziamenti sono nulli a prescindere dalle dimensioni dell’impresa. Sui licenziamenti per giustificato motivo soggettivo
(disciplinari) si introduce il rinvio al giudice della decisione di
disporre un indennizzo o la reintegrazione. Sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (economici) si introduce una sostanziale liberalizzazione, compensata da un indennizzo. Quest’ultimo è il punto più critico. Il governo si è accorto di quanto fosse aberrante la prima versione della sua proposta, quella diretta a monetizzare sic et simpliciter il licenziamento anche ove il motivo economico fosse “inesistente”: tale previsione
avrebbe, come ovvio, incentivato l’uso fraudolento del motivo economico per licenziare lavoratori a vario titolo scomodi. Ora il governo propone due correttivi.
Il primo consiste in un preventivo ricorso da parte del datore all’Ufficio del lavoro per espletare una procedura di conciliazione: questo va bene. Il secondo correttivo invece consiste in una toppa peggiore del buco: si prevede infatti che il giudice possa disporre la reintegrazione solo nel caso in cui sia il lavoratore a provare la discriminazione (cosa ovvia e del tutto pleonastica) ovvero che il vero motivo sia di natura disciplinare.
Tale disposizione è paradossale, persino kafkiana. Forse in quel momento al governo dei tecnici è caduta la penna. Secondo tale previsione il lavoratore infatti si dovrebbe auto-accusare di avere commesso una infrazione disciplinare, affermare che quello è il vero motivo per cui viene licenziato e che tuttavia il suo contratto collettivo per quella infrazione prevede non il licenziamento ma, in ipotesi, una sospensione. Insomma, una specie di via del Golgota, cui si addice un richiamo letterario, quello di
“buio a mezzogiorno” di Koestler.
Questa cosa va cambiata. Non è ammissibile che in materia di licenziamento si inverta l’onere della prova, facendo carico di questa al lavoratore, arretrando persino rispetto alla legge sui
licenziamenti del 1966. E a proposito di tutela antidiscriminatoria, il governo non ha nulla da dire sul fatto che
tra oltre 2000 neo-assunti dalla Fiat a Pomigliano risulti che non
ce ne sia nemmeno uno iscritto alla Fiom-Cgil. Non sarebbe, questa sì, materia per adottare in via d’urgenza un decreto legge per
ripristinare alcuni principi di fondo di libertà e garanzia dei diritti civili nei luoghi di lavoro?

L’Unità 25.03.12

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“GOVERNO E SINDACATO UNITI NELL´ERRORE”, di EUGENIO SCALFARI

Due simbolismi contrapposti: l´ha detto Giorgio Napolitano definendo perfettamente le posizioni del governo e del sindacato a proposito dell´articolo 18. Noi lo stiamo scrivendo da almeno un mese, da quando quei due simbolismi hanno egemonizzato i media, l´opinione pubblica e il dibattito politico.
I simboli sono una rappresentazione della realtà semplificata all´estremo. E poiché ogni realtà è sempre relativa perché dipende dal punto di vista di chi la guarda e la vive, la sua semplificazione genera inevitabilmente radicali contrapposizioni, una tesi ed una anti-tesi. La soluzione di questa dialettica nel caso migliore dà luogo alla sintesi (in politica si chiama compromesso), nel caso peggiore si risolve con uno scontro.
Affidarsi ai simboli è dunque molto pericoloso. Sono contrapposizioni sciagurate che hanno perfino provocato guerre mondiali: nel 1914 l´uccisione del delfino degli Asburgo da parte d´un terrorista serbo scatenò la prima guerra mondiale che provocò dieci milioni di morti; nel 1939 il simbolo fu Danzica e i morti furono trenta milioni, genocidio della Shoah a parte.
Nel caso nostro non ci saranno per fortuna né morti né feriti, ma lo sconquasso sociale e politico sarà intenso se non si arriverà ad un compromesso: potrebbe cadere il governo Monti, potrebbe sfasciarsi il Partito democratico e la sinistra italiana finirebbe in soffitta, lo “spread” potrebbe tornare a livelli intollerabili con conseguenze nefaste per tutta l´Europa e tutto questo perché le due parti contrapposte vogliono stabilire – mi si passi un´espressione scurrile ma appropriata – chi ce l´ha più lungo.

Infatti il peso e l´importanza dell´articolo 18 è pressoché irrilevante. I casi in cui è stato applicato il reingresso nel posto di lavoro negli ultimi dieci anni non arrivano al migliaio e soprattutto non ha mai avuto ripercussioni sullo sviluppo dell´economia reale e sui suoi fondamentali. In vigenza di quell´articolo gli investimenti, i profitti, il livello dei salari, le esportazioni, i consumi, sono andati bene o male per cause completamente diverse. Quanto alla giusta causa, la cui presenza può consentire un licenziamento e la cui assenza può renderlo possibile, essa è già contenuta in leggi precedenti all´articolo 18 e può essere sempre sollevata dinanzi al magistrato.
Conosco bene l´obiezione di Monti: i mercati vogliono un segnale che li rassicuri sulla fine dei poteri di veto del sindacato, vogliono cioè la fine della concertazione con le parti sociali. Non credo che attribuire ai mercati questa richiesta corrisponda a verità. I mercati non sono un soggetto unitario, ma una moltitudine di soggetti ciascuno dei quali è portatore di una propria visione e d´una propria valutazione. Mi domando piuttosto che cosa accadrebbe se le conseguenze di quella norma determinassero uno sconquasso sociale.
Finora il disagio sociale provocato dai sacrifici (necessari) del “salva Italia” ha trovato una sua barriera nel No-Tav, ma è una bandiera troppo localistica per essere innalzata a lungo da Palermo a Torino. Se però la bandiera diventasse quella del no ai licenziamenti in tempi di recessione, allora la pace sociale rischierebbe di saltar per aria e probabilmente sarebbero proprio i mercati a giudicarla negativamente ai fini della crescita.
Infine osservo che l´articolo 1 della Costituzione recita che l´Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Si tratta d´una banalità o d´un principio che deve ispirare il legislatore?
Mi permetto di ricordare che questo giornale ed io personalmente siamo stati fin dall´inizio e addirittura prima ancora che nascesse, fautori del governo Monti e lo siamo tuttora anche sulla riforma del lavoro, che riteniamo positiva in quasi tutte le sue parti, nella lotta al precariato, nell´estensione delle tutele a tutta la platea dei disoccupati, nell´estensione del contratto a tempo indeterminato, nella flessibilità all´entrata ed anche all´uscita. Rischiare tutto questo per difendere un simbolo di irrilevante significato è un errore politico grave. E poiché questo non è un governo tecnico – come erroneamente molti e lo stesso Monti continuano a ripetere – ma è un governo politico a tutti gli effetti, commettere un errore politico è grave.
Certo, spetta al Parlamento decidere e spetta ai partiti correggere l´errore modificando il testo del governo per quanto riguarda l´articolo 18. I partiti della maggioranza saranno concordi su questa questione?

* * *
Il mio ragionamento sarebbe tuttavia incompleto se non dicessi che le osservazioni fin qui formulate riguardano non soltanto il governo ma anche la Cgil perché anch´essa si sta battendo per un simbolo di irrilevante significato. Capisco che Susanna Camusso deve convivere con la Fiom, ciascuno ha i suoi crucci fuori casa e dentro casa. Ma se si minaccia di mettere a fuoco il Paese per un simbolo irrilevante possono verificarsi conseguenze sciagurate. La Camusso dovrebbe indicare qual è il compromesso sul quale sarebbe d´accordo il sindacato. Il modello tedesco sui licenziamenti motivati per ragioni economiche lo accetterebbe? Alcuni ministri affermano di averglielo chiesto e di averne ricevuto risposta positiva. Se questo è vero, abbia il coraggio di dirlo in pubblico: darebbe gran forza a tutti coloro che vogliono arrivare alla sintesi tra i due simbolismi contrapposti e salvare la parte positiva della riforma del lavoro. Per quanto sappiamo noi la Camusso è ferma sulla posizione che l´articolo 18 sia intoccabile. Ebbene, noi siamo contrari ai cosiddetti valori non negoziabili. Lo siamo nei confronti della Chiesa che può sostenere l´intoccabilità di quei valori quando si rivolge ai suoi fedeli ma non quando pretende che la sua dottrina entri nella legislazione. Non esistono valori intoccabili salvo quelli della legalità, dell´etica pubblica e della parità dei cittadini di fronte alla legge.
Nel campo del lavoro il diritto intoccabile è quello della rappresentanza di tutti i lavoratori nelle aziende in cui lavorano. Quello sì, è un diritto intoccabile e laddove è stato violato va assolutamente recuperato.
L´articolo 18 è stato certamente una conquista ma per quanto riguarda le modalità della sua applicazione non è intoccabile.
Con Susanna Camusso ho avuto su queste questioni una polemica: citai un´intervista fatta nel 1984 con Luciano Lama e lei se ne risentì. Ebbene desidero oggi rievocare ancora la posizione di Luciano Lama che fu anche, allora, quella di Carniti, di Benvenuto e di Trentin. Sto parlando dei dirigenti storici del sindacalismo italiano, dopo Bruno Buozzi e Di Vittorio.
La loro ambizione non fu soltanto quella di conquistare nuovi diritti per i lavoratori ma soprattutto quella di trasformare la classe operaia in classe generale. C´era un solo modo di realizzare quell´obiettivo: fare della classe operaia la principale e coerente portatrice degli interessi generali del Paese e dello Stato mettendo in seconda fila i suoi interessi particolari di classe.
Quei dirigenti sono entrati a giusto titolo nel Pantheon della nostra storia nazionale. Dubito molto che ci si possa entrare soltanto difendendo l´articolo 18.
Se è vero come è vero che i casi di reingresso nel posto di lavoro si contano su poche dita, questo vale per il governo come per il sindacato, vale per Elsa Fornero quanto per Susanna Camusso. Tutte e due su questo punto stanno sbagliando e tutte e due si stanno assumendo grandi responsabilità. Ci riflettano prima che sia troppo tardi. Ci rifletta anche il presidente del Consiglio e i suoi ministri. Alcuni di loro si sono fatti sentire all´interno del Consiglio dei ministri di venerdì scorso. Da Fabrizio Barca a Giarda, a Balduzzi ed è stato un utile campanello d´allarme.
Chiedere riflessione a Di Pietro, a Vendola, a Diliberto è tempo perso. Loro pensano agli interessi di bottega e basta. Ma ai partiti della “strana” maggioranza si deve chiedere di guardare con molta attenzione ciò che potrà avvenire in Parlamento.

* * *
Bersani proporrà di adottare il sistema tedesco per i licenziamenti motivati da ragioni economiche. Quel sistema prevede un tentativo di conciliazione tra l´imprenditore e il sindacato d´azienda; in caso di fallimento (secondo le statistiche le trattative fallite sono soltanto l´11 per cento dei casi) si va dal magistrato del lavoro che può annullare il licenziamento (reingresso) o stabilire un congruo indennizzo.
Su questo punto il Pd è compatto, da Veltroni a D´Alema, a Franceschini, a Letta, a Fioroni. È probabile che anche Casini e Fini confluiranno sulla stessa posizione. Perfino Squinzi, il neo-presidente di Confindustria, sembra disponibile ad accettare questa soluzione.
L´incognita resta il Pdl o almeno una parte dei parlamentari di quel partito. Vedremo il risultato delle votazioni. Il Parlamento è sovrano ed è positivo che in questo caso la fiducia non venga posta dal governo. La posta in gioco è la coesione sociale. I riformisti lottano per difenderla. Auguriamoci che vincano, e che passi la riforma che il governo ha predisposto con questa modifica: sarebbe un passo avanti verso l´equità e la pre-condizione d´una crescita che d´ora in avanti dovrà essere la sola preoccupazione e obiettivo di tutti.

La Repubblica 25.03.12

attualità, lavoro, politica italiana

“Battaglia decisiva”, di Claudio Sardo

La riforma del mercato del lavoro contiene novità positive e misure, benché parziali, volte a correggere antiche storture (ad esempio sul lavoro femminile). Anche nel contrasto al precariato e in tema di ammortizzatori sociali ci sono segni incoraggianti, da rafforzare in Parlamento. L’articolo 18 non è tutto. Ma il vulnus del governo sull’articolo 18 è così grave da oscurare quel che di buono c’è nella riforma. Per questo va cambiato. La gravità sta innanzitutto nel merito: se il licenziamento per motivi economici, per quanto immotivato, consentisse comunque all’impresa medio-grande di liberarsi (salvo indennizzo) di un lavoratore, è chiaro che verrebbe stravolto l’equilibrio dei diritti.
Verrebbe stravolto a danno del dipendente. E non sarà certo un passaggio formale all’Ufficio del lavoro a scongiurare l’abuso. Luigi Mariucci spiega bene sul giornale di oggi perché, sul punto, le prime toppe cucite dal governo rischiano di essere peggiori del buco. C’è invece un modo semplice per evitare gli arbitrii: consentire al giudice la facoltà di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Attualmente il reintegro è la sola sanzione al licenziamento senza giusta causa: offrire al giudice il duplice strumento, reintegro o indennizzo, è un elemento di flessibilità tutt’altro che disprezzabile, tanto che fino a poco tempo fa veniva invocato come frontiera del riformismo e dell’innovazione.
È grave, e anche preoccupante, che il governo abbia imboccato una via di ostilità, anziché la ricerca di maggiore coesione. Lo è ancor più davanti alle aperture che giungevano dal movimento sindacale, Cgil compresa. La ragione politica dello «strappo» compiuto dal governo è tuttora una questione aperta che riguarda il destino della legislatura e il rapporto con le forze che sostengono l’esecutivo. La disponibilità di Monti a correzioni in Parlamento, rafforzata dal saggio patrocinio del Capo dello Stato, è senza dubbio positiva: speriamo che si arrivi a una completa riparazione del danno, perché altrimenti verrebbero compromesse le fondamenta di questa stagione di convergenza nazionale. Di certo non ha senso giustificare il premier, come fanno alcuni, perché intanto ha voluto lanciare un messaggio forte ai mercati (nel senso di esibire uno «scalpo»). Il premier avrebbe potuto mostrare da subito assai di più: un consenso ampio attorno a una riforma così importante. L’Italia è più forte con la coesione sociale: basta ricordare i tempi del governo Ciampi.
Peraltro lo squilibrio di questa modifica all’articolo 18 tocca principi costituzionali, che sono essi stessi valori di coesione. L’Italia è una Repubblica «fondata sul lavoro» espressione del personalismo cristiano e delle culture solidariste e pone dubbi radicali una norma concepita al solo scopo di monetizzare un licenziamento, anche quando questo costituisca un abuso. Reintrodurre il reintegro tra le facoltà del giudice, insomma, è necessario. In ogni caso non c’è alcun interesse nazionale alla frattura sociale, tanto più se la convergenza è possibile attorno a un testo di segno riformista.
Ha scritto bene Stefano Folli sul Sole 24 ore: «Davvero la sconfitta della Cgil e la spaccatura del Pd sono obiettivi più importanti del varo di una riforma decente?». Purtroppo c’è un coro di cattivi consiglieri che continua a inseguire il premier, ripetendo la favola di un centrosinistra che detesta l’impresa e regredisce nel vetero-laburismo. Che c’entra il disprezzo verso l’impresa con la constatazione che una modifica dell’articolo 18, come formulata nel ddl attuale, sarebbe un’obiettiva «facilitazione» dei licenziamenti? Per fortuna il neo presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha usato parole di verità nel dire che «non è l’articolo 18 a fermare lo sviluppo italiano» e che la Cgil rappresenta per lui un interlocutore «ragionevole» («Non è mai stato un problema trovare un’intesa anche più vantaggiosa di quella raggiunta da altri in altre condizioni»).
Squinzi poteva avere convenienza a non esporsi così oggi. La sua onestà intellettuale fa ben sperare. Per riportare l’Italia in serie A c’è grande bisogno di coraggio e di serietà. È giusto che l’impresa sia aiutata a crescere e produrre ricchezza, è giusto che ognuno difenda i propri interessi, ma guai a perdere di vista il bene comune. La coesione sociale è uno dei beni più preziosi. Dopo quanto è accaduto non sarà facile rimediare al vulnus dell’articolo 18 e consentire così alla riforma di liberare le potenzialità positive. Bisognerà lottare. Dentro e fuori il Parlamento. Purtroppo il Pdl continua a occuparsi più dei possibili danni al Pd che non degli interessi del Paese. Tuttavia cresce il consenso al cambiamento di quella norma ingiusta. Il passaggio è decisivo. Perché si tratta di ricondurre il governo Monti alla sua missione originaria: un governo di transizione che affronta l’emergenza sulla base di una larga convergenza e non un laboratorio di confuse operazioni politiche. E perché è ora di mettere finalmente in cima all’agenda il tema della crescita.

L’Unità 25.03.12

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“UN ARRETRAMENTO PERSINO RISPETTO ALLA LEGGE DEL 1966”, di Luigi Mariucci

Alcune parti del documento sul mercato del lavoro appaiono positive (ad esempio su lavoro femminile, disabili e immigrati). Per questo colpiscono ancora di più alcune evidenti brutture. Più in generale la sensazione è che tra le due parti più strutturali dell’intervento, tralasciando qui la questione ammortizzatori, vi
sia un forte sbilanciamento. Nel linguaggio asettico del governo questi due capitoli sono denominati «flessibilità in entrata» e «flessibilità in uscita». Si dovrebbe dire, da un lato, «il modo faticoso con cui forse si può ottenere un contratto di lavoro decente, quando il lavoro scarseggia». E, dall’altro lato, «il modo più facile con cui si può essere licenziati nelle imprese con più di 15 dipendenti».
Nella prima parte dell’intervento, quello relativo alle forme di assunzione, si adottano un insieme di interventi utili, tuttavia nel segno di una pregevole quanto modesta manutenzione, non di un
cambiamento strutturale.
Nella seconda parte, quella sui licenziamenti, il cambiamento è invece profondo: altro che manutenzione! Si introduce infatti una radicale riscrittura dell’articolo 18. Si introduce una differenziazione di trattamento tra i diversi tipi di licenziamento: discriminatorio, disciplinare (ovvero per giustificato motivo soggettivo) e economico (ovvero per giustificato motivo oggettivo). Sui licenziamenti discriminatori
nulla cambia: già ora, se si riesce a provare la discriminazione, questi licenziamenti sono nulli a prescindere dalle dimensioni dell’impresa. Sui licenziamenti per giustificato motivo soggettivo
(disciplinari) si introduce il rinvio al giudice della decisione di
disporre un indennizzo o la reintegrazione. Sui licenziamenti per giustificato motivo oggettivo (economici) si introduce una sostanziale liberalizzazione, compensata da un indennizzo. Quest’ultimo è il punto più critico. Il governo si è accorto di quanto fosse aberrante la prima versione della sua proposta, quella diretta a monetizzare sic et simpliciter il licenziamento anche ove il motivo economico fosse “inesistente”: tale previsione
avrebbe, come ovvio, incentivato l’uso fraudolento del motivo economico per licenziare lavoratori a vario titolo scomodi. Ora il governo propone due correttivi.
Il primo consiste in un preventivo ricorso da parte del datore all’Ufficio del lavoro per espletare una procedura di conciliazione: questo va bene. Il secondo correttivo invece consiste in una toppa peggiore del buco: si prevede infatti che il giudice possa disporre la reintegrazione solo nel caso in cui sia il lavoratore a provare la discriminazione (cosa ovvia e del tutto pleonastica) ovvero che il vero motivo sia di natura disciplinare.
Tale disposizione è paradossale, persino kafkiana. Forse in quel momento al governo dei tecnici è caduta la penna. Secondo tale previsione il lavoratore infatti si dovrebbe auto-accusare di avere commesso una infrazione disciplinare, affermare che quello è il vero motivo per cui viene licenziato e che tuttavia il suo contratto collettivo per quella infrazione prevede non il licenziamento ma, in ipotesi, una sospensione. Insomma, una specie di via del Golgota, cui si addice un richiamo letterario, quello di
“buio a mezzogiorno” di Koestler.
Questa cosa va cambiata. Non è ammissibile che in materia di licenziamento si inverta l’onere della prova, facendo carico di questa al lavoratore, arretrando persino rispetto alla legge sui
licenziamenti del 1966. E a proposito di tutela antidiscriminatoria, il governo non ha nulla da dire sul fatto che
tra oltre 2000 neo-assunti dalla Fiat a Pomigliano risulti che non
ce ne sia nemmeno uno iscritto alla Fiom-Cgil. Non sarebbe, questa sì, materia per adottare in via d’urgenza un decreto legge per
ripristinare alcuni principi di fondo di libertà e garanzia dei diritti civili nei luoghi di lavoro?

L’Unità 25.03.12

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“GOVERNO E SINDACATO UNITI NELL´ERRORE”, di EUGENIO SCALFARI

Due simbolismi contrapposti: l´ha detto Giorgio Napolitano definendo perfettamente le posizioni del governo e del sindacato a proposito dell´articolo 18. Noi lo stiamo scrivendo da almeno un mese, da quando quei due simbolismi hanno egemonizzato i media, l´opinione pubblica e il dibattito politico.
I simboli sono una rappresentazione della realtà semplificata all´estremo. E poiché ogni realtà è sempre relativa perché dipende dal punto di vista di chi la guarda e la vive, la sua semplificazione genera inevitabilmente radicali contrapposizioni, una tesi ed una anti-tesi. La soluzione di questa dialettica nel caso migliore dà luogo alla sintesi (in politica si chiama compromesso), nel caso peggiore si risolve con uno scontro.
Affidarsi ai simboli è dunque molto pericoloso. Sono contrapposizioni sciagurate che hanno perfino provocato guerre mondiali: nel 1914 l´uccisione del delfino degli Asburgo da parte d´un terrorista serbo scatenò la prima guerra mondiale che provocò dieci milioni di morti; nel 1939 il simbolo fu Danzica e i morti furono trenta milioni, genocidio della Shoah a parte.
Nel caso nostro non ci saranno per fortuna né morti né feriti, ma lo sconquasso sociale e politico sarà intenso se non si arriverà ad un compromesso: potrebbe cadere il governo Monti, potrebbe sfasciarsi il Partito democratico e la sinistra italiana finirebbe in soffitta, lo “spread” potrebbe tornare a livelli intollerabili con conseguenze nefaste per tutta l´Europa e tutto questo perché le due parti contrapposte vogliono stabilire – mi si passi un´espressione scurrile ma appropriata – chi ce l´ha più lungo.

Infatti il peso e l´importanza dell´articolo 18 è pressoché irrilevante. I casi in cui è stato applicato il reingresso nel posto di lavoro negli ultimi dieci anni non arrivano al migliaio e soprattutto non ha mai avuto ripercussioni sullo sviluppo dell´economia reale e sui suoi fondamentali. In vigenza di quell´articolo gli investimenti, i profitti, il livello dei salari, le esportazioni, i consumi, sono andati bene o male per cause completamente diverse. Quanto alla giusta causa, la cui presenza può consentire un licenziamento e la cui assenza può renderlo possibile, essa è già contenuta in leggi precedenti all´articolo 18 e può essere sempre sollevata dinanzi al magistrato.
Conosco bene l´obiezione di Monti: i mercati vogliono un segnale che li rassicuri sulla fine dei poteri di veto del sindacato, vogliono cioè la fine della concertazione con le parti sociali. Non credo che attribuire ai mercati questa richiesta corrisponda a verità. I mercati non sono un soggetto unitario, ma una moltitudine di soggetti ciascuno dei quali è portatore di una propria visione e d´una propria valutazione. Mi domando piuttosto che cosa accadrebbe se le conseguenze di quella norma determinassero uno sconquasso sociale.
Finora il disagio sociale provocato dai sacrifici (necessari) del “salva Italia” ha trovato una sua barriera nel No-Tav, ma è una bandiera troppo localistica per essere innalzata a lungo da Palermo a Torino. Se però la bandiera diventasse quella del no ai licenziamenti in tempi di recessione, allora la pace sociale rischierebbe di saltar per aria e probabilmente sarebbero proprio i mercati a giudicarla negativamente ai fini della crescita.
Infine osservo che l´articolo 1 della Costituzione recita che l´Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Si tratta d´una banalità o d´un principio che deve ispirare il legislatore?
Mi permetto di ricordare che questo giornale ed io personalmente siamo stati fin dall´inizio e addirittura prima ancora che nascesse, fautori del governo Monti e lo siamo tuttora anche sulla riforma del lavoro, che riteniamo positiva in quasi tutte le sue parti, nella lotta al precariato, nell´estensione delle tutele a tutta la platea dei disoccupati, nell´estensione del contratto a tempo indeterminato, nella flessibilità all´entrata ed anche all´uscita. Rischiare tutto questo per difendere un simbolo di irrilevante significato è un errore politico grave. E poiché questo non è un governo tecnico – come erroneamente molti e lo stesso Monti continuano a ripetere – ma è un governo politico a tutti gli effetti, commettere un errore politico è grave.
Certo, spetta al Parlamento decidere e spetta ai partiti correggere l´errore modificando il testo del governo per quanto riguarda l´articolo 18. I partiti della maggioranza saranno concordi su questa questione?

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Il mio ragionamento sarebbe tuttavia incompleto se non dicessi che le osservazioni fin qui formulate riguardano non soltanto il governo ma anche la Cgil perché anch´essa si sta battendo per un simbolo di irrilevante significato. Capisco che Susanna Camusso deve convivere con la Fiom, ciascuno ha i suoi crucci fuori casa e dentro casa. Ma se si minaccia di mettere a fuoco il Paese per un simbolo irrilevante possono verificarsi conseguenze sciagurate. La Camusso dovrebbe indicare qual è il compromesso sul quale sarebbe d´accordo il sindacato. Il modello tedesco sui licenziamenti motivati per ragioni economiche lo accetterebbe? Alcuni ministri affermano di averglielo chiesto e di averne ricevuto risposta positiva. Se questo è vero, abbia il coraggio di dirlo in pubblico: darebbe gran forza a tutti coloro che vogliono arrivare alla sintesi tra i due simbolismi contrapposti e salvare la parte positiva della riforma del lavoro. Per quanto sappiamo noi la Camusso è ferma sulla posizione che l´articolo 18 sia intoccabile. Ebbene, noi siamo contrari ai cosiddetti valori non negoziabili. Lo siamo nei confronti della Chiesa che può sostenere l´intoccabilità di quei valori quando si rivolge ai suoi fedeli ma non quando pretende che la sua dottrina entri nella legislazione. Non esistono valori intoccabili salvo quelli della legalità, dell´etica pubblica e della parità dei cittadini di fronte alla legge.
Nel campo del lavoro il diritto intoccabile è quello della rappresentanza di tutti i lavoratori nelle aziende in cui lavorano. Quello sì, è un diritto intoccabile e laddove è stato violato va assolutamente recuperato.
L´articolo 18 è stato certamente una conquista ma per quanto riguarda le modalità della sua applicazione non è intoccabile.
Con Susanna Camusso ho avuto su queste questioni una polemica: citai un´intervista fatta nel 1984 con Luciano Lama e lei se ne risentì. Ebbene desidero oggi rievocare ancora la posizione di Luciano Lama che fu anche, allora, quella di Carniti, di Benvenuto e di Trentin. Sto parlando dei dirigenti storici del sindacalismo italiano, dopo Bruno Buozzi e Di Vittorio.
La loro ambizione non fu soltanto quella di conquistare nuovi diritti per i lavoratori ma soprattutto quella di trasformare la classe operaia in classe generale. C´era un solo modo di realizzare quell´obiettivo: fare della classe operaia la principale e coerente portatrice degli interessi generali del Paese e dello Stato mettendo in seconda fila i suoi interessi particolari di classe.
Quei dirigenti sono entrati a giusto titolo nel Pantheon della nostra storia nazionale. Dubito molto che ci si possa entrare soltanto difendendo l´articolo 18.
Se è vero come è vero che i casi di reingresso nel posto di lavoro si contano su poche dita, questo vale per il governo come per il sindacato, vale per Elsa Fornero quanto per Susanna Camusso. Tutte e due su questo punto stanno sbagliando e tutte e due si stanno assumendo grandi responsabilità. Ci riflettano prima che sia troppo tardi. Ci rifletta anche il presidente del Consiglio e i suoi ministri. Alcuni di loro si sono fatti sentire all´interno del Consiglio dei ministri di venerdì scorso. Da Fabrizio Barca a Giarda, a Balduzzi ed è stato un utile campanello d´allarme.
Chiedere riflessione a Di Pietro, a Vendola, a Diliberto è tempo perso. Loro pensano agli interessi di bottega e basta. Ma ai partiti della “strana” maggioranza si deve chiedere di guardare con molta attenzione ciò che potrà avvenire in Parlamento.

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Bersani proporrà di adottare il sistema tedesco per i licenziamenti motivati da ragioni economiche. Quel sistema prevede un tentativo di conciliazione tra l´imprenditore e il sindacato d´azienda; in caso di fallimento (secondo le statistiche le trattative fallite sono soltanto l´11 per cento dei casi) si va dal magistrato del lavoro che può annullare il licenziamento (reingresso) o stabilire un congruo indennizzo.
Su questo punto il Pd è compatto, da Veltroni a D´Alema, a Franceschini, a Letta, a Fioroni. È probabile che anche Casini e Fini confluiranno sulla stessa posizione. Perfino Squinzi, il neo-presidente di Confindustria, sembra disponibile ad accettare questa soluzione.
L´incognita resta il Pdl o almeno una parte dei parlamentari di quel partito. Vedremo il risultato delle votazioni. Il Parlamento è sovrano ed è positivo che in questo caso la fiducia non venga posta dal governo. La posta in gioco è la coesione sociale. I riformisti lottano per difenderla. Auguriamoci che vincano, e che passi la riforma che il governo ha predisposto con questa modifica: sarebbe un passo avanti verso l´equità e la pre-condizione d´una crescita che d´ora in avanti dovrà essere la sola preoccupazione e obiettivo di tutti.

La Repubblica 25.03.12