È stato un politologo americano, Robert Dahl, a riflettere molto su due concetti, quello di responsabilità (accountability) e di risposta (responsive), che per lui sono gli indicatori migliori della qualità di una democrazia. Un partito o una istituzione che si mostra responsabile e congruente, ossia capace di dare risposta alle preferenze collettive, è un trasparente segnale di un buon rendimento della democrazia. E invece no. In Italia un partito responsabile e “responsivo” rispetto alle preferenze della sua base sociale, sensibile cioè alle grandi inquietudini del suo elettorato dinanzi a una scelta inattesa e inopinata, diventa l’emblema di un becero conservatorismo (così il Pd appare a Giovanni Sabbatucci sul Messaggero), incapace di mettere a tacere umori regressivi e di innovare il mercato del lavoro strappando il nesso con vetusti richiami identitari. Certi commentatori, che ancora hanno fresco l’inchiostro indelebile con la parola «casta» ben impressa, ora urlano contro il Pd perché si è buttato in «un vicolo cieco» (così la Stampa) pur di seguire le bizze della base molto arrabbiata. Insomma: esiste la casta o no? Taluni organi, che inveiscono in maniera professionale contro la casta, descritta come un ottuso e omologato ceto dominante insensibile alle voci disarmate dei cittadini, ora aggrediscono il Pd perché appare schiavo dell’opinione pubblica in subbuglio. Ma per certuni i lavoratori non sono cittadini e comunque non creano opinione. Molti giornali della gazzarra anticasta in realtà vorrebbero che l’intera classe politica si comportasse davvero come una sola voce e come una casta con una identica volontà. Per difendere interessi che stanno molto a cuore dei loro editori, la casta non è più un tabù, tutti i politici anzi devono stringersi in una casta coesa, pronta a votare a favore dell’interesse generale (dell’impresa) e scacciare gli intollerabili interessi particolari (dei lavoratori). Se la prendono con la casta solo perché, purtroppo per loro, non esiste e anzi certi partiti che osano ribellarsi all’idea di «monetizzare il lavoro» sono marchiati come dei biechi soggetti antimoderni. I giornali come il Corriere della sera, che esultano alla bellezza – persino dal punto di vista strettamente estetico – di un governo che decide di «verbalizzare e non più di concertare», vorrebbero che la società disperdesse ogni voce critica e obbedisse alla ricetta del tecnico che per definizione ha sempre la verità in tasca. Il governo rompe la coesione. Bene, è nel suo potere. Ma perché lamentarsi poi se le forze colpite dalle decisioni si organizzano e danno battaglia? È troppo facile decidere ignorando gli impegni, e scherzare persino contro una malintesa «consociazione», e poi piagnucolare se, quando le reti della trattativa sono state spezzate, ognuno dei soggetti in campo si sente libero di rispondere come meglio crede alla tutela dei propri rappresentati. In democrazia non c’è un organo, un partito, un potere che in quanto tale sia l’interprete autorizzato dell’interesse generale e dal suo pulpito può giudicare gli altri interessi che osano mobilitarsi come di per sé inferiori, eccentrici e ostili al bene pubblico. La democrazia liberale è per definizione il conflitto tra interessi (particolari) che si contendono con il voto il potere di legiferare. Ciascuno dei competitori è una parte, e non può dire di essere l’interesse generale. Dopo che sono state accumulate montagne di parole contro i giacobini e la loro vituperata idea di volontà generale, ora prevale un inedito giacobinismo tecnico-padronale che dichiara di legiferare non in nome di interessi più forti di altri, ma in nome del vero e unico interesse generale. Jacob Talmon chiamava questa abitudine mentale democrazia totalitaria. Solo in una prospettiva totalitaria infatti chi governa è il generale e chi si oppone a una norma che lo danneggia è bollato come il deteriore seguace del particolare che fa ombra al bene comune. Se si intende buttare a mare la concertazione, se si giudica di per sé antimoderna la coesione sociale, poi non bisogna rompere le scatole a chi già prenota la piazza. Nessuno, neanche il custode della tecnica ha il potere di chiedere la resa incondizionata all’interesse sociale soccombente in una nuova legge. Troppo comodo pavoneggiarsi per aver spezzato con intrepido coraggio le reni del consociativismo e poi stizzirsi se la piazza torna a riempirsi e qualcuno annuncia barricate. Recuperare la coesione, riprendere i fili della concertazione è ancora possibile. In un vicolo cieco non c’è il Pd, ma solo chi pretende di decidere sfregiando il legame sociale e poi cammina tra le macerie.
L’Unià 23.03.12