attualità, memoria, politica italiana

“Alla festa è mancato il futuro”, di Massimo Gramellini

Siamo più o meno italiani di un anno fa? Siamo più poveri, più arrabbiati, più disorientati. Ma forse, e con qualche sorpresa, anche più italiani. Non era affatto scontato, il 17 marzo 2011. La ricorrenza dei Centocinquanta planò su un Paese distratto e cinico, ripiegato nel suo «particulare» e poco propenso a farsi sedurre dal fascino retorico della Patria. L’anniversario pareva eccitare solo gli animi dei faziosi, che ne trassero spunto per riaprire vecchie e mai chiuse ferite (in Italia i cerotti della memoria sono di pessima fattura e si staccano al primo venticello bilioso). Cavurriani contro garibaldini, borbonici contro sabaudi, secessionisti padani e autonomisti meridionali uniti nella lotta per sfasciare quel poco di coesione nazionale che in un secolo e mezzo eravamo riusciti a costruire, nonostante una dittatura, una guerra civile, le stragi di Stato, il terrorismo, la mafia e le mani leste dei tangentocrati.
Le premesse per un autogol della Storia c’erano tutte e invece, incredibilmente, i cittadini del Paese meno nazionalista del mondo hanno partecipato alla festa.

Più al Nord che al Sud e più a Torino che altrove. Ma ovunque si è registrata un’adesione superiore alle attese, un senso di appartenenza che ha stupito per primi coloro che lo manifestavano. Come se le trombe della crisi economica avessero chiamato a raccolta le paure e le incertezze di tutti, per dar loro riparo all’ombra di una comunità più ampia della famiglia e del campanile. In fondo, persino quel litigare viscerale e ossessivo sui nodi irrisolti della propria storia era un modo isterico, quindi molto italiano, di sentirsene parte.

Il sentimento nazionale è cresciuto quasi per emulazione: la bandiera al balcone, l’inno cantato a squarciagola. Sembrava un gioco, ma è diventato una cosa seria, come tutte le cose che gli italiani cominciano per gioco. Ha unito un po’ tutti, da destra a sinistra. Tranne la Lega, che aveva scommesso sul fallimento delle celebrazioni (oltre che sul crollo dell’euro) per risollevare la bandiera della secessione e si è ritrovata un boomerang tricolore sulla testa. Infatti, contro ogni previsione, gli italiani non si vergognavano di ricordare la Patria. Naturalmente la onoravano alla loro maniera: riaprendo gli album di famiglia per scovare brandelli di appartenenza nel trisnonno brigante o nel nonno partigiano. Insieme con l’interesse per l’Italia cresceva l’attaccamento alle sue istituzioni, in particolare la presidenza della Repubblica. Nel Paese delle eterne curve, Napolitano diventava il Distinto Centrale, la zona dello stadio dove gli opposti schieramenti si fondono con più senso civico di quanto avvenga talvolta nella tribuna delle autorità.

Si era a questo punto quando lo spettro ancora fragile della italianità ritrovata è stato messo alla prova da un doppio trauma: il precipitare della recessione e l’incartarsi del berlusconismo. Pungolati dagli eventi, ci siamo dimenticati di consultare la memoria degli ultimi 150 anni: vi avremmo visto quel che in effetti è poi accaduto, e cioè che sull’orlo del precipizio questo Paese riesce sempre a fare un passo indietro. E non è mai un passo normale, da torre degli scacchi, ma una mossa estrosa. La mossa del cavallo. Quella che Napolitano ha escogitato nominando Monti senatore a vita e costruendo le premesse per un cambiamento su cui nessun esperto avrebbe scommesso un euro bucato.

Dalla bandana al loden, e dal bunga bunga allo spread, il passaggio è stato brusco ma perfettamente coerente con la nostra storia di giravolte alla ricerca perenne di quel giusto mezzo, plasmato nel buon senso più che nell’eroismo, in cui va infine sempre a placarsi l’insopprimibile «democristianità» dell’italiano medio. Da un giorno all’altro il teatro del Centocinquantenario ha cambiato cartellone, con i dossier economici che sostituivano le intercettazioni e i silenzi algidi degli esperti al posto delle «boutade» grottesche dei dilettanti. Si portava così a compimento il vero paradosso di questa festa: mentre il rispetto per le istituzioni si estendeva dal Presidente al governo (di cui veniva riconosciuta, accanto alla durezza, la serietà) e persino il senso dello Stato faceva timidamente capolino incarnandosi in un sentimento inedito di ostilità verso gli evasori fiscali, evaporava il credito residuo dei partiti politici, che dalla stragrande maggioranza degli italiani vengono ormai considerati, nei casi migliori, delle associazioni a scopo di lucro gestite da personaggi inefficienti e mediocri.

Se qualcosa è mancato in questa festa tricolore che oggi ammaina le sue bandiere, non è stato il presente e nemmeno il passato. E’ stato il futuro. Non ne ha parlato nessuno, se non in termini vaghi e retorici. Dalla politica, «sollevata» da compiti di governo, ci saremmo aspettati almeno questo: che oltre ad autoimporsi una cura dimagrante per rientrare nei limiti della decenza, si sforzasse di offrire una visione sull’avvenire possibile del Paese. Invece la classe dirigente (?) non si è degnata di dirci come immagina l’Italia fra cinquant’anni: quel gigantesco parco-giochi cultural-ambientale che vorrebbe il mondo e noi ci ostiniamo a non essere, oppure qualcos’altro? Nel silenzio degli indecenti, come sempre la risposta verrà dagli italiani che non hanno potere ma istinto di sopravvivenza. E come sempre non sarà quella che ci si aspetta da loro, qualunque essa sia.

da La Stampa

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“A chiusura del 150° Napolitano indica che la missione è «continuare»”, di Stefano Folli
Il Governo Monti figlio della coesione nazionale ma resta molto da fare. È un messaggio ai partiti

Riuscire a chiudere in modo non retorico le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità era un compito non facile. Riuscire poi a legare il passato con il presente, annodando i fili della storia alle incognite dell’attualità, era ancora più insidioso. Invece la cerimonia di ieri mattina al Quirinale ha detto qualcosa di nuovo agli italiani. Questo grazie all’abilità di Benigni, certo, al magnifico coro dei bambini che hanno cantato l’inno di Mameli, alle ricostruzioni storiche di Galasso, Cazzullo e Dacia Maraini.
Ma soprattutto grazie all’intervento di Napolitano che ha dato corpo a un’impressione diffusa da tempo e non solo nelle stanze del Quirinale. L’impressione che i lunghi mesi delle celebrazioni per l’Unità, che hanno occupato tutto lo scorso anno e che avevano richiesto in precedenza altri mesi di preparazione (a opera del comitato presieduto prima da Ciampi e poi da Amato), abbiano stimolato una forma di coesione nella coscienza degli italiani. Al di là delle aspettative più ottimistiche.
Tale coesione nazionale ha rappresentato il sottofondo, si può dire, la premessa della svolta politica di novembre, quando Berlusconi si è ritirato e ha consentito – anche con i voti determinanti del Pdl – la nascita del governo Monti. Il presidente della Repubblica considera fondamentale questo passaggio e lo si è capito dalle sue parole di ieri. L’anno dell’Unità è servito a verificare che l’Italia è un paese più unito e meno fazioso di quanto si creda. Più coeso e forse persino più ottimista di quanto pretenda un certo spirito auto-flagellatorio che riaffiora sovente.
Se non fosse esistito questo sentimento unitario e solidale, questa volontà di non farsi schiacciare dalle difficoltà e di guardare avanti, l’avvento di un governo innovativo e con pochi precedenti come l’attuale non sarebbe stato possibile. Invece è accaduto. Anche perché la nazione era in grado di sostenere la svolta, per quanto tutt’altro che «indolore». E se nello scorso autunno la politica era malata e i partiti tradizionali apparivano in affanno, l’antidoto è arrivato da un senso di appartenenza vigoroso e quasi insospettato.
Questa in sostanza l’analisi di Napolitano. Con una postilla essenziale: ora bisogna «continuare». Continuare lungo la via imboccata da Monti – nonostante i sacrifici che il percorso comporta – perché i risultati sono significativi. Continuare nel segno di un’emergenza non ancora finita, come ha detto proprio ieri lo stesso presidente del Consiglio. Nella coscienza che c’è molto da fare, anche in Europa. Ma in particolare, nella visione del capo dello Stato, sono i partiti ad aver di fronte un lungo cammino per recuperare credibilità. C’è un’esigenza di moralità e di trasparenza che oggi si misura nella volontà di varare misure serie contro quella corruzione che avvelena la vita pubblica. E poi naturalmente c’è il capitolo ancora da scrivere che riguarda le riforme istituzionali (e la legge elettorale, ieri non citata ma sempre sullo sfondo).
Rinnovamento morale e riforme di sistema: un impegno non da poco per le forze politiche quando manca meno di un anno alla scadenza effettiva della legislatura. Il clima politico è discreto, come si è visto nel vertice di Palazzo Chigi dell’altra sera. Ma il tempo scorre e l’ora delle decisioni si avvicina. Per non disperdere ciò che di buono l’Italia ha mostrato nell’anno dell’Unità.

da www.ilsole24ore.com

attualità, memoria, politica italiana

“Alla festa è mancato il futuro”, di Massimo Gramellini

Siamo più o meno italiani di un anno fa? Siamo più poveri, più arrabbiati, più disorientati. Ma forse, e con qualche sorpresa, anche più italiani. Non era affatto scontato, il 17 marzo 2011. La ricorrenza dei Centocinquanta planò su un Paese distratto e cinico, ripiegato nel suo «particulare» e poco propenso a farsi sedurre dal fascino retorico della Patria. L’anniversario pareva eccitare solo gli animi dei faziosi, che ne trassero spunto per riaprire vecchie e mai chiuse ferite (in Italia i cerotti della memoria sono di pessima fattura e si staccano al primo venticello bilioso). Cavurriani contro garibaldini, borbonici contro sabaudi, secessionisti padani e autonomisti meridionali uniti nella lotta per sfasciare quel poco di coesione nazionale che in un secolo e mezzo eravamo riusciti a costruire, nonostante una dittatura, una guerra civile, le stragi di Stato, il terrorismo, la mafia e le mani leste dei tangentocrati.
Le premesse per un autogol della Storia c’erano tutte e invece, incredibilmente, i cittadini del Paese meno nazionalista del mondo hanno partecipato alla festa.

Più al Nord che al Sud e più a Torino che altrove. Ma ovunque si è registrata un’adesione superiore alle attese, un senso di appartenenza che ha stupito per primi coloro che lo manifestavano. Come se le trombe della crisi economica avessero chiamato a raccolta le paure e le incertezze di tutti, per dar loro riparo all’ombra di una comunità più ampia della famiglia e del campanile. In fondo, persino quel litigare viscerale e ossessivo sui nodi irrisolti della propria storia era un modo isterico, quindi molto italiano, di sentirsene parte.

Il sentimento nazionale è cresciuto quasi per emulazione: la bandiera al balcone, l’inno cantato a squarciagola. Sembrava un gioco, ma è diventato una cosa seria, come tutte le cose che gli italiani cominciano per gioco. Ha unito un po’ tutti, da destra a sinistra. Tranne la Lega, che aveva scommesso sul fallimento delle celebrazioni (oltre che sul crollo dell’euro) per risollevare la bandiera della secessione e si è ritrovata un boomerang tricolore sulla testa. Infatti, contro ogni previsione, gli italiani non si vergognavano di ricordare la Patria. Naturalmente la onoravano alla loro maniera: riaprendo gli album di famiglia per scovare brandelli di appartenenza nel trisnonno brigante o nel nonno partigiano. Insieme con l’interesse per l’Italia cresceva l’attaccamento alle sue istituzioni, in particolare la presidenza della Repubblica. Nel Paese delle eterne curve, Napolitano diventava il Distinto Centrale, la zona dello stadio dove gli opposti schieramenti si fondono con più senso civico di quanto avvenga talvolta nella tribuna delle autorità.

Si era a questo punto quando lo spettro ancora fragile della italianità ritrovata è stato messo alla prova da un doppio trauma: il precipitare della recessione e l’incartarsi del berlusconismo. Pungolati dagli eventi, ci siamo dimenticati di consultare la memoria degli ultimi 150 anni: vi avremmo visto quel che in effetti è poi accaduto, e cioè che sull’orlo del precipizio questo Paese riesce sempre a fare un passo indietro. E non è mai un passo normale, da torre degli scacchi, ma una mossa estrosa. La mossa del cavallo. Quella che Napolitano ha escogitato nominando Monti senatore a vita e costruendo le premesse per un cambiamento su cui nessun esperto avrebbe scommesso un euro bucato.

Dalla bandana al loden, e dal bunga bunga allo spread, il passaggio è stato brusco ma perfettamente coerente con la nostra storia di giravolte alla ricerca perenne di quel giusto mezzo, plasmato nel buon senso più che nell’eroismo, in cui va infine sempre a placarsi l’insopprimibile «democristianità» dell’italiano medio. Da un giorno all’altro il teatro del Centocinquantenario ha cambiato cartellone, con i dossier economici che sostituivano le intercettazioni e i silenzi algidi degli esperti al posto delle «boutade» grottesche dei dilettanti. Si portava così a compimento il vero paradosso di questa festa: mentre il rispetto per le istituzioni si estendeva dal Presidente al governo (di cui veniva riconosciuta, accanto alla durezza, la serietà) e persino il senso dello Stato faceva timidamente capolino incarnandosi in un sentimento inedito di ostilità verso gli evasori fiscali, evaporava il credito residuo dei partiti politici, che dalla stragrande maggioranza degli italiani vengono ormai considerati, nei casi migliori, delle associazioni a scopo di lucro gestite da personaggi inefficienti e mediocri.

Se qualcosa è mancato in questa festa tricolore che oggi ammaina le sue bandiere, non è stato il presente e nemmeno il passato. E’ stato il futuro. Non ne ha parlato nessuno, se non in termini vaghi e retorici. Dalla politica, «sollevata» da compiti di governo, ci saremmo aspettati almeno questo: che oltre ad autoimporsi una cura dimagrante per rientrare nei limiti della decenza, si sforzasse di offrire una visione sull’avvenire possibile del Paese. Invece la classe dirigente (?) non si è degnata di dirci come immagina l’Italia fra cinquant’anni: quel gigantesco parco-giochi cultural-ambientale che vorrebbe il mondo e noi ci ostiniamo a non essere, oppure qualcos’altro? Nel silenzio degli indecenti, come sempre la risposta verrà dagli italiani che non hanno potere ma istinto di sopravvivenza. E come sempre non sarà quella che ci si aspetta da loro, qualunque essa sia.

da La Stampa

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“A chiusura del 150° Napolitano indica che la missione è «continuare»”, di Stefano Folli
Il Governo Monti figlio della coesione nazionale ma resta molto da fare. È un messaggio ai partiti

Riuscire a chiudere in modo non retorico le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità era un compito non facile. Riuscire poi a legare il passato con il presente, annodando i fili della storia alle incognite dell’attualità, era ancora più insidioso. Invece la cerimonia di ieri mattina al Quirinale ha detto qualcosa di nuovo agli italiani. Questo grazie all’abilità di Benigni, certo, al magnifico coro dei bambini che hanno cantato l’inno di Mameli, alle ricostruzioni storiche di Galasso, Cazzullo e Dacia Maraini.
Ma soprattutto grazie all’intervento di Napolitano che ha dato corpo a un’impressione diffusa da tempo e non solo nelle stanze del Quirinale. L’impressione che i lunghi mesi delle celebrazioni per l’Unità, che hanno occupato tutto lo scorso anno e che avevano richiesto in precedenza altri mesi di preparazione (a opera del comitato presieduto prima da Ciampi e poi da Amato), abbiano stimolato una forma di coesione nella coscienza degli italiani. Al di là delle aspettative più ottimistiche.
Tale coesione nazionale ha rappresentato il sottofondo, si può dire, la premessa della svolta politica di novembre, quando Berlusconi si è ritirato e ha consentito – anche con i voti determinanti del Pdl – la nascita del governo Monti. Il presidente della Repubblica considera fondamentale questo passaggio e lo si è capito dalle sue parole di ieri. L’anno dell’Unità è servito a verificare che l’Italia è un paese più unito e meno fazioso di quanto si creda. Più coeso e forse persino più ottimista di quanto pretenda un certo spirito auto-flagellatorio che riaffiora sovente.
Se non fosse esistito questo sentimento unitario e solidale, questa volontà di non farsi schiacciare dalle difficoltà e di guardare avanti, l’avvento di un governo innovativo e con pochi precedenti come l’attuale non sarebbe stato possibile. Invece è accaduto. Anche perché la nazione era in grado di sostenere la svolta, per quanto tutt’altro che «indolore». E se nello scorso autunno la politica era malata e i partiti tradizionali apparivano in affanno, l’antidoto è arrivato da un senso di appartenenza vigoroso e quasi insospettato.
Questa in sostanza l’analisi di Napolitano. Con una postilla essenziale: ora bisogna «continuare». Continuare lungo la via imboccata da Monti – nonostante i sacrifici che il percorso comporta – perché i risultati sono significativi. Continuare nel segno di un’emergenza non ancora finita, come ha detto proprio ieri lo stesso presidente del Consiglio. Nella coscienza che c’è molto da fare, anche in Europa. Ma in particolare, nella visione del capo dello Stato, sono i partiti ad aver di fronte un lungo cammino per recuperare credibilità. C’è un’esigenza di moralità e di trasparenza che oggi si misura nella volontà di varare misure serie contro quella corruzione che avvelena la vita pubblica. E poi naturalmente c’è il capitolo ancora da scrivere che riguarda le riforme istituzionali (e la legge elettorale, ieri non citata ma sempre sullo sfondo).
Rinnovamento morale e riforme di sistema: un impegno non da poco per le forze politiche quando manca meno di un anno alla scadenza effettiva della legislatura. Il clima politico è discreto, come si è visto nel vertice di Palazzo Chigi dell’altra sera. Ma il tempo scorre e l’ora delle decisioni si avvicina. Per non disperdere ciò che di buono l’Italia ha mostrato nell’anno dell’Unità.

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