Oggi la benzina è rincarata. È l’estate del quarantasei. Un litro vale un chilo d’insalata…» canta Paolo Conte nella sua vecchia ballata dedicata alla Topolino amaranto. E da allora il prezzo della benzina è per gli italiani l’indicatore economico primo. Rozzo, simbolico, casalingo, quel che volete, ma prima che tutti ci avvezzassimo allo spread BundBtp, quando Standard&Poor’s erano meno familiari dei grandi magazzini Standa, ora Billa, e quando nulla sapevamo del trading online, bene, che un litro di super valesse un chilo di insalata, o giù di lì, lo sapevano tutti. Non siamo i soli a ragionare così, per generazioni di americani il biglietto, prima ancora il gettone, della metropolitana di New York doveva avere lo stesso costo della fetta di pizza e il «New York Times» calcolava il costo della vita comparando subway e Napoletana.
Ancora oggi, del resto, il raffinato settimanale d’affari «The Economist» pubblica un indice McDonald’s stimando le metropoli più esose con un borsino che confronta il prezzo locale del Big Mac. Non c’è dunque da stupirsi se, appena lenite le ansie per la crisi europea del debito, dalla Grecia all’Italia, la gente si fissi sulla benzina come totem delle paure. Una scuola di economisti Usa già definisce i nostri giorni «era dell’ansietà» e se uno studio di Banca Intesa-Sanpaolo conferma che la famiglia media italiana spende ormai al mese 470 euro per benzina e carburanti contro 467 euro per il cibo, la realtà è chiara. I consumi alimentari sono tornati al livello del 1980, quando la Nazionale di Enzo Bearzot si apprestava a diventare invincibile e Urss, Dc, Psi e Pci sembravano eterni.
La benzina rincarata frena gli altri consumi, e sul bidone di petrolio greggio Brent la nostra fobia del futuro si appalesa come sul lettino psicoanalitico del dottor Freud. A un seminario di «The Ruling Companies», lunedì, l’amministatore delegato Eni Paolo Scaroni ha calcolato che sui 125 dollari del prezzo del greggio oggi, la paura di una guerra con l’Iran pesa per ben 20 dollari. Se Obama, Israele e gli ayatollah si rappacificassero oggi stesso il greggio scenderebbe di botto a 100 dollari. L’irrazionalità dei mercati globali pesa in casa nostra con la paranoia sul riscaldamento, il pieno per la gita fuori porta, il motorino dei figli: benzina che rincara e noi a scegliere, come Paolo Conte, tra super senza piombo e insalata.
Il presidente americano Barack Obama ha colto questo clima teso, perché nel paese che era abituato a pagare un dollaro per un gallone, quattro litri, di benzina vedere oggi al distributore prezzi «europei» rischia di essere un handicap verso la Casa Bianca. Se Obama lancia un caso internazionale contro la Cina sulle Terre Rare, preziosi minerali indispensabili allo sviluppo, lo fa solo per dire agli operai e al ceto medio furioso per la benzina: vedete? Alzo la voce con Pechino! Tutti noi, quando i numerini girano come un flipper al distributore, dobbiamo ricordarci del mondo che, come nel Quarantasei, ci impone i suoi prezzi. Nella stessa conferenza Scaroni ricordava che, al netto dei profitti Eni e delle imposte, il prezzo del gas e i suoi rincari vengono decisi in poche, e lontane, capitali. Ma il governo dei tecnici di Mario Monti, che ha evitato la crisi peggiore con le scelte d’inverno, non deve sottovalutare il cattivo umore popolare sulla benzina di chi non legge il «Wall Street Journal» e non ha mai aperto Forbes.
Il rigore senza consenso costante può innescare populismo e le scelte migliori possono essere male interpretate da chi deve arrivare a fine mese. Raghuram Rajan, il grande economista, ci indica nel suo saggio appena tradotto da Einaudi come il ceto medio stenti molto dopo la crisi 2008, pressato dalla nuova economia del lavoro sempre precario. Allora occhio alla benzina e occhio alla paura e al malumore che si possono diffondere. Non bacchettiamo mai nessuno, spieghiamo ogni scelta, proviamo a non bloccare neppure i consumi più elementari. Non è solo un gran bene per la nostra economia, è un gran bene per la nostra politica, società e democrazia, oggi come nel Quarantasei.
La Stampa 14.03.12