Caro direttore, in un articolo apparso il 7 marzo sul Corriere della Sera, Tullio Gregory affronta il tema dell’internazionalizzazione della formazione universitaria e in particolare della lingua di erogazione dei corsi. Gregory si schiera in difesa della lingua nazionale rispetto alla scelta «anglofona» del Ministero che ha raccolto il consenso «nei luoghi dedicati all’insegnamento politecnico e manageriale».
Trovo l’argomento trattato di estremo interesse, ma il dibattito a mio parere deve partire dalla definizione dell’obiettivo a cui vuole rispondere la formazione universitaria. La lingua non deve infatti essere vista come un fine, ma come un mezzo per formare non solo professionisti in grado di trovare occupazioni soddisfacenti ma, soprattutto, persone che possano svolgere un ruolo attivo nella società.
La scelta della lingua deve cioè essere funzionale a fornire opportunità di crescita umana e professionale a chi nell’università spende una parte importante della propria vita. In questo senso, credo che oggi sia necessario accompagnare alla formazione specialistica di qualità, tradizionale punto di forza della nostra università, lo sviluppo di altre competenze: tra queste, in particolare, è essenziale la capacità di operare in un ambiente «globale», di interagire con persone di culture differenti, con valori, atteggiamenti, modi di pensiero profondamente diversi dalla tradizione italiana ed europea.
La formazione universitaria è uno strumento potenzialmente formidabile per sviluppare questa apertura culturale, purché essa si svolga in contesti in cui vivono e lavorano studenti e docenti di tutto il mondo. Se questo obiettivo è condiviso, la scelta dell’inglese come mezzo di comunicazione all’interno delle nostre università, almeno ai livelli di formazione più alti (laurea magistrale e dottorato di ricerca), diventa obbligata.
L’uso dell’italiano rappresenta infatti una barriera all’accesso per gli studenti di altri Paesi, limitando la nostra capacità di intercettare i giovani di tutto il mondo che, ogni giorno di più, cercano il luogo «migliore» dove formarsi. Se riusciremo a superare questa barriera, rendendo accessibili i nostri Atenei anche a chi non conosce l’italiano, ma solo quella «lingua internazionale» che è diventato l’inglese, il nostro Paese, con la sua cultura e il suo modo di vivere, sarà in grado di manifestare tutta la propria capacità di attrazione.
Non è un caso se il Politecnico di Milano, dal momento in cui ha introdotto nelle lauree magistrali insegnamenti in inglese, ha visto crescere il numero dei propri studenti stranieri fino agli attuali 4.200, provenienti da 110 Paesi diversi. Altri atenei (Bocconi, Bologna, Trento, Politecnico di Torino, per limitarsi ad alcuni dei più attivi internazionalmente) hanno avuto dinamiche analoghe.
Mi sia consentita una riflessione finale. Oggi, sempre più ragazzi italiani considerano la possibilità di formarsi all’estero. Se il sistema universitario nazionale non fosse quindi in grado di offrire un contesto formativo «globale», rischierebbe non solo di non attrarre studenti stranieri, ma anche di perdere gli studenti italiani più motivati e aperti al mondo. Questo, il Paese non se lo può proprio permettere.
*Rettore del Politecnico di Milano
Il Corriere della Sera 11.03.12