I direttori di alcuni dei musei più importanti d’Italia, quindi del mondo, hanno deciso di fare «outing» e dichiarare i propri redditi. Che sono, rispetto a quelli dei colleghi del resto del pianeta, avvilenti.Se il guadagno misura il merito, dirigere gli Uffizi è un lavoro da 1.780 euro? Lette le denunce dei redditi dei ministri e degli alti burocrati di Stato, i direttori di alcuni dei musei più importanti d’Italia, quindi del mondo, hanno deciso di fare «outing» e dichiarare i propri redditi. Che sono, rispetto a quelli dei colleghi del resto del pianeta, avvilenti.
A uscire allo scoperto, in calce a una lettera pubblica, sono Anna Lo Bianco, direttore della Galleria nazionale d’Arte antica di Palazzo Barberini, Maria Grazia Bernardini, del Museo di Castel Sant’Angelo, Anna Coliva, della Galleria Borghese, Antonio Natali, della Galleria degli Uffizi, Andreina Draghi, del Museo di Palazzo di Venezia, Serena Dainotto, della Biblioteca dell’Archivio di Stato di Roma e tanti altri funzionari alla guida di biblioteche e archivi e istituzioni museali che fanno grande il nostro Paese.
Il punto di partenza, come dicevamo, è la tesi espressa da alcuni esponenti del governo e altissimi grand commis di Stato dopo la (meritoria) scelta di trasparenza fatta giorni fa con la pubblicazione sul Web dei redditi e dei patrimoni. Tesi sintetizzabile così: tanta responsabilità, tanto guadagno. Con parallela citazione dell’America e delle società calviniste dove il reddito non solo non viene pudicamente nascosto come da noi (il denaro è stato a lungo «lo sterco del diavolo» sia per i comunisti sia per i cattolici) ma al contrario esibito, a riprova della affermazione professionale.
Un po’ quello che ha detto Paola Severino. La quale, a Liana Milella che le chiedeva se non fosse imbarazzata per i sette milioni di euro denunciati, ha risposto: «No, perché guadagnare non è un peccato se lo si fa lecitamente producendo altra ricchezza e pagando le tasse. A questi redditi sono arrivata solo dopo anni di duro lavoro, supportato da tanta passione».
Fin qua, par di capire, i direttori dei musei ci stanno: è il mercato, bellezza. E le alternative inventate finora, vedi socialismo reale, non hanno dato risultati incoraggianti… Ma perché lo Stato dovrebbe dare 395 mila euro lorde al direttore generale della Consob (che poi ne prende altri 95 mila da membro della Commissione di garanzia per gli scioperi) e undici volte di meno al direttore del museo fiorentino che ospita la «Nascita di Venere» di Botticelli e la «Maestà di Santa Trinità» del Cimabue, «l’Annunciazione» di Leonardo da Vinci e la «Maestà di Ognissanti» di Giotto?
Perché 519.015 euro lorde di pensione all’ex segretario generale del Senato Antonio Malaschini e 32.535 (cioè 16 volte di meno: sedici volte!) ad Anna Lo Bianco che guida la Galleria nazionale d’Arte antica e per 1.765 euro netti al mese (un quarto di quanto prende un commesso di Palazzo Madama di pari anzianità) porta il peso di custodire e valorizzare la Fornarina di Raffaello, il ritratto di Beatrice Cenci di Guido Reni e quello di Enrico VIII di Hans Holbein e «Giuditta che taglia la testa ad Oloferne» di Caravaggio? Che senso ha che lo Stato tratti con tanta disparità, a capocchia, figli e figliastri?
All’estero non va così. I «pari grado» dei nostri dirigenti, in Francia, Gran Bretagna o Australia, guadagnano il doppio se non il triplo. La stessa Spagna, per dire, nonostante sia in crisi quanto e più di noi, paga i direttori dei più importanti musei dai 50 ai 60 mila euro. Questione di rispetto. Questione di «merito».
Da qui la lettera di «outing», che val la pena di riportare parola per parola: «Tra tanti che sentono il dovere della trasparenza a proposito dei propri redditi, vogliamo ora proporci anche noi, archeologi, storici dell’arte, architetti, archivisti, bibliotecari, funzionari con compiti complessi che spaziano dalla gestione del personale al fund raising, alla direzione di musei, fino a incarichi altamente specialistici come la cura di mostre, grandi restauri o la redazione di pubblicazioni scientifiche».
Ebbene, proseguono con amara ironia i firmatari della protesta, «non raggiungiamo i duemila euro al mese; ed è lo stipendio vero, che non prevede nessuna indennità, nessun altro tipo di compensazione. A noi il merito quindi di bilanciare la media europea contro l’eccesso di compensi dei parlamentari, dei manager di Stato e non, di professori universitari. Nel nostro caso gli stipendi si collocano molto al di sotto».
Peggio, insistono: «Un bel giorno, ormai alcuni anni fa, la riforma Bassanini stabilì fortissimi aumenti di stipendio solo per i dirigenti del ministero dei Beni culturali con contratti di tipo privatistico, allargando a dismisura la differenza tra i prescelti e non, con una conseguente e inevitabile soggezione dei primi nei confronti della politica. Saremmo curiosi di sapere come ci apostroferebbe il giornalista Vittorio Feltri che nel corso di una trasmissione televisiva definiva “scherzosamente” barboni i parlamentari per i loro compensi, in fondo di modesta entità se confrontati a tanti altri. E vorremmo anche sapere cosa pensano il presidente del Consiglio Monti e il ministro Severino che con rigore ritengono il denaro il giusto compenso al merito».
Ed ecco la conclusione: «I nostri meriti — spiace dircelo da soli — sono elencati in densi curricula e in un’altissima specializzazione che ci viene a parole continuamente riconosciuta. Ma allora come la mettiamo visto che anche il nostro ministero, pur avendone la possibilità, non ci ha riconosciuto nessuna progressione dimostrando così di non conoscerci e chiedendoci ancora oggi, la fotocopia del diploma di laurea e di perfezionamento?»
È stata questa, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il dicastero dei Beni culturali ha appena avviato una specie di concorso che dovrebbe portare a una modesta (cento o centocinquanta euro) progressione meritocratica degli emolumenti. Ma per farlo ha chiesto ai suoi stessi direttori, archivisti, funzionari, archeologi, storici dell’arte, architetti e bibliotecari di fornire un incartamento con dentro non solo tutti gli incarichi di lavoro effettuati ma addirittura il certificato di laurea che, ovviamente, già possiede in qualche cassetto. Una piccola, stupida, crudele umiliazione burocratica supplementare.
Il Corriere della Sera 09.03.12