Ha fatto bene il Sole 24 Ore a lanciare un manifesto di sostegno alla cultura. Il successo dell’iniziativa, come dimostrano le numerose adesioni, indica che questo bisogno è sentito, ma è rimasto latente, forse perché abbiamo vissuto un lungo periodo di promozione d’altro. Il successo, probabilmente, riflette anche il fatto che il concetto di cultura, già per sua natura vago, è, in questa campagna, non specificato, lasciando intendere che include la conoscenza accumulata, la produzione di arte, nelle sue più varie articolazioni, lo studio, la scuola e l’apprendimento nonché il sistema di valori, credenze e norme che definiscono e circoscrivono i nostri comportamenti al di là di quanto non regolato – o non regolabile – dalla legge.
Così ce n’è per tutti e tutti vi possono trovare se stessi. Da chi nella promozione della cultura vi legge la difesa e conservazione delle minoranze linguistiche a chi vi vede una ricomposizione del pubblico bilancio verso la scuola, la ricerca e l’università oppure verso la promozione di musei, teatri e opere liriche. Da chi vi intravede una enfasi nuova sullo sfruttamento economico dell’enorme patrimonio artistico e archeologico di cui il paese dispone, fino a chi spera che il focus sulla cultura serva a riportare l’attenzione verso la ricostruzione di un sistema di valori che oggi molti reputano compromesso e minacciato dal dilagare della corruzione – come sembrano suggerire le allarmanti statistiche rese recentemente note dalla Corte dei Conti.
Queste nozioni non sono né antitetiche né indipendenti né mutuamente esclusive. Ma la loro “promozione”, come è facile intuire, chiama interventi molto diversi. E forse sarà di questi che da ultimo si dovrà discutere. Qui vorrei soffermarmi su una nozione specifica: il sistema di valori, norme e credenze più o meno condivise dalla comunità, che ne regolano e spiegano i comportamenti dei suoi membri. E, in particolare, su un sottoinsieme di queste norme, valori e credenze: le attitudini delle persone verso la corruzione, le norme che presiedono al rifiuto o alla accettazione di comportamenti corruttivi, le aspettative sul comportamento corruttivo degli altri. Gli standard del nostro Paese sono sotto questo aspetto ancora lontani da quelli dove la corruzione è fenomeno raro. Le testimonianze di questo deficit sono numerose. Ne riporto alcune tratte dalla European Social Survey. Su quattro danesi tre ritengono che possano tranquillamente fidarsi che un funzionario pubblico si comporti onestamente con loro e due tedeschi su quattro la pensano così. Tra gli italiani solo uno su quattro pensa di potersi fidare dell’onestà di un pubblico funzionario – più o meno le stesse aspettative che hanno i greci riguardo ai loro dipendenti pubblici. Il 50% degli italiani ha maturato un serio timore di poter essere trattato in modo disonesto. Questa paura riguarda solo il 7% dei danesi e il 23% dei tedeschi: evidentemente la diffusione di fenomeni corruttivi alimenta queste credenze. Infatti se oltre il 6% degli italiani intervistati dichiara che nei trascorsi cinque anni un pubblico dipendente ha preteso mazzette o favori, questo accade in meno dell’1% tra i danesi e i tedeschi, ma tra il 12% dei greci.
Una ragione per cui queste pratiche sono diffuse ha certamente a che fare con la legge e ciò che si fa per farla rispettare. È possibile che tedeschi e danesi siano più severi di quanto noi non siamo nel far rispettare le norme anticorruzione e che abbiano anche norme più severe delle nostre. Il decreto che il governo si appresta a varare in materia probabilmente aiuta. Ma la legge non può moltissimo se le persone sono tolleranti verso la corruzione, se vi è intorno al fenomeno un favorevole humus culturale che ne alimenta domanda e offerta. Dopotutto solo il 70% degli italiani pensa che sia seriamente sbagliato che un funzionario pubblico accetti favori o bustarelle in cambio di una accelerazione del servizio mentre quasi il 90% dei danesi lo pensa. Se si è tolleranti verso la corruzione, si tollera anche che non venga perseguita o che non appaia al top dell’agenda politica, e quindi che la sua eradicazione si rifletta in leggi e provvedimenti.
Sovvertire questa cultura – questo insieme di norme e credenze – sembra quindi conditio sine qua non per restringere il campo della corruzione. Ma è anche possibile? E come si fa? Dopotutto – questa è l’obiezione – non è forse la cultura un fenomeno così persistente da rendere l’impresa quasi senza speranza (un po’ come cercare di far cambiare religione agli italiani)? Non sono tanti gli esempi di politiche che si siano poste questo obiettivo. Ma vi è un caso interessante: quello di Hong Kong nella metà degli anni 70 quando Murray MacLehose, ultimo governatore britannico di Hong Kong, decise di varare un programma per liberare l’isola dalla corruzione endemica che affliggeva qualunque settore della amministrazione pubblica e aveva innervato la polizia, rendendo la sua punizione ormai impossibile. Il compito viene affidato alla Commissione Indipendente Contro la Corruzione (Icac) che lo persegue usando tre strade: azioni preventive per ripristinare la funzionalità della polizia, un severo enforcement delle leggi e un vasto programma di educazione contro la corruzione condotto nelle scuole. La vera novità rispetto ai tentativi falliti del passato era il programma di educazione, vasto e insistito per 20 generazioni di ragazzi. Fu questo che mutò l’atteggiamento verso la corruzione, sia scoraggiando direttamente atti corruttivi (perché non si fa) sia perché prosciugò in maniera durevole la giustificazione della corruzione, accrescendo la domanda di legalità e quindi il consenso verso le politiche di enforcement.
Fu una piccola rivoluzione culturale. Mentre prima del programma solo il 32% della gente di Honk Kong riteneva che passare una mazzetta a un funzionario pubblico per sveltire una pratica fosse un atto commendevole, questa quota accede il 70% 15 anni dopo. Oggi Hong Kong svetta nelle classifiche di Transparency International come uno dei paesi a minor corruzione. La lezione per noi è che se si vuole si può cambiare; richiede però un impegno non estemporaneo ma duraturo. È questo impegno a insistere sulla politica che gli conferisce credibilità. A sua volta quest’ultima è condizione indispensabile perché le persone siano disposte ad abbandonare norme e credenze con cui sono cresciuti.
Il Sole 24 Ore 28.02.12