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“I giovani, il lavoro e i lapsus del governo”, di Carlo Galli

Nel momento in cui il governo mette mano alla riforma del lavoro – cioè all´atto politicamente più significativo del suo mandato emergenziale – i recenti lapsus comunicativi di alcuni suoi importanti esponenti sono preziosi non tanto per intentare processi alle intenzioni, quanto perché permettono di inquadrare la dimensione reale dei problemi in gioco.
In primo luogo, c´è un problema cognitivo: le élites sociali, economiche, intellettuali del Paese, oggi investite della diretta responsabilità di governo, conoscono l´Italia attraverso stereotipi (la colpa delle nostre condizioni è nel buonismo sociale) oppure attraverso le privilegiate esperienze di familiari e di amici (da cui apprendono che la mobilità è benefica, e che il lavoro gratificante si trova a Washington o a Wall Street o nella Silicon Valley, e non a casa di papà e mamma dove lo cercano, senza trovarlo, i giovani e illusi fannulloni). Questo cortocircuito è il segno che le élites oggi sono distanti dalla massa dei cittadini; la contrazione del ceto medio – già ampia e articolata riserva di energie culturali, sociali e anche politiche – lascia il campo a una società frammentata fra le élites sempre meno numerose, e sempre più separate, e i cittadini “normali”, sempre più anonimi, passivi, incompresi. Non è questione di buona volontà o di sensibilità individuale. È una nuova struttura della società ciò che si profila dietro quelle parole.
Da qui un ulteriore problema politico. Le élites hanno sempre maggiore difficoltà a dirigere un Paese attraverso un´egemonia di tipo tradizionale: cioè attraverso un discorso che sia, com´è inevitabile, di parte, ma che al tempo stesso sappia aprire un orizzonte in cui c´è spazio per tutti, e non solo per pochi privilegiati. Ciò non significa che il governo non farà nulla per modificare il contesto in cui il lavoro manca per giovani e meno giovani, e, quando c´è, è sempre più spesso precario, sottopagato, non in linea con gli studi effettuati, e poco tutelato; significa però che oggi le élites muovono, per default, da una posizione, da una ideologia, che vede gli imperativi sistemici dell´economia non solo come privi di alternative ma anche scarsamente governabili. Significa che sostituiscono l´oggettività alla persuasione e al consenso – la tecnica alla politica, si direbbe, se non fosse politico anche l´agire che si presenta come tecnico –.
Le élites hanno in mente un futuro poco condiviso da chi lo deve vivere, cioè soprattutto dai giovani (che del futuro sono i naturali abitatori). E lo propongono senza farsene troppi problemi, senza sforzarsi neppure di nascondere il fastidio per la riluttanza dei diretti interessati davanti all´immagine, presentata come gratificante, di un lavoro perennemente mobile – cioè, in realtà, perennemente mancante –. Tanto che li trattano con qualche durezza, con qualche impazienza, poiché li vedono collocati prevalentemente nel “passato”. Ma in realtà quei giovani, e anche i meno giovani, hanno i piedi ben piantati nel presente; e conoscono già, da qualche decennio, la realtà del lavoro che scarseggia; ma la vivono come una perdita, come un vulnus, rispetto sia alle aspettative individuali (tutte illusorie?) sia allo stesso impianto categoriale e valoriale della Costituzione.
E questo è un ulteriore problema politico. Come conciliare la previsione programmatica e valoriale di una repubblica democratica fondata sul lavoro – ovvero l´idea di una civile convivenza che al lavoro affida la funzione di socializzazione, di promozione della persona umana, e che ne fa lo strumento privilegiato perché il cittadino determini in autonomia il proprio avvenire –, con la realtà di segno opposto del recente passato, del presente e anche dell´avvenire? Questo è un problema che deve interpellare chiunque faccia politica (a qualunque titolo), e spingerlo a interpretare con buon senso e con radicalità (cioè senza ideologie e senza superficialità) l´esperienza presente, ma anche a ricondurla nell´alveo, della nostra Costituzione, della nostra democrazia.
L´ultimo, e più grave, problema politico a cui rimandano le difficoltà comunicative del governo è infatti la crisi del capitalismo (o almeno della interpretazione che ne dà la dominante cultura neoliberista). È una crisi che ha almeno due volti: dal punto di vista istituzionale, implica un conflitto tra finanza e democrazie indebitate che apre contraddizioni laceranti fra i politici (sia i “tecnici” al governo, sia i partiti in Parlamento) che si devono fare carico di misure decise fuori dagli spazi della sovranità democratica, e i cittadini che le subiscono. Da un punto di vista materiale, poi, il capitalismo sta perdendo la sua capacità di realizzare crescita attraverso il lavoro sociale, che è stata la sua giustificazione storica, la sua legittimazione democratica. Se è vero che è più facile, oggi, creare ricchezza che creare lavoro, e che il lavoro sarà sempre più spesso scarso, dequalificato e sottopagato, che ne è del significato progressivo del capitalismo, della sua promessa di futuro?
Almeno alla questione del lavoro – della sua difesa, della sua centralità politica, del suo sviluppo – anche un governo “tecnico” non può non impegnarsi a dare risposte all´altezza della questione democratica che vi è implicita. Una risposta linguisticamente, concettualmente, operativamente, adeguata alla fiducia non solo tecnica che riscuote dentro e fuori d´Italia.

La Repubblica 15.02.12