Mamma tu sei mamma e solo tu puoi capire, ti affido i miei figli. A loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io. Sposata a 13 anni per avere un po’ di libertà, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo, e tu lo sai. Dagli quello che non hai dato a me. Ti voglio bene. Non lasciarli a loro non sono degni di loro di nessuno. Mamma Addio e Perdonami, Perdonami se puoi. So che non ti vedrò mai perché questa sarà la volontà dell’onore che ha la famiglia. Per questo avete perso una figlia. Addio ti vorrò sempre bene. Perdonami ti chiedo perdono».
Quante volte Maria Concetta Cacciola, collaboratrice di giustizia, 31 anni, aveva scritto nella sua ultima lettera alla mamma quelle parole: addio e perdonami. Si fidava di lei. Le aveva affidato i figli e la loro educazione. Lo aveva fatto prima
di raggiungere una località segreta dalla quale ritornò perché sottoposta a insostenibili pressioni proprio dai suoi genitori.
Il 20 agosto, Maria Concetta rinunciò alla sua libertà. Si tolse la vita ingerendo un litro di acido muriatico: sostanza simbolo che nel linguaggio mafioso significa cancellare, pulire i peccatori dal tradimento. I suoi genitori e suo fratello sono stati arrestati ieri perché responsabili di induzione al suicidio.
Il destino di Maria Concetta sembra legato ad altre donne che hanno deciso di collaborare. Non può essere una coincidenza. Tita Buccafusca. Trentotto anni, anche lei morta ingerendo acido muriatico. Moglie di Pantaleone Mancuso, boss di Nicotera. Si tolse la vita il 18 aprile 2011. Aveva deciso di collaborare ma qualcosa, qualcuno l’aveva indotta a tornare sui suoi passi.
Lea Garofalo, trentacinque anni. Più nota alle cronache perché rapita al nord, nel novembre del 2010, in corso Sempione a Milano e sciolta nell’acido dall’ex compagno Carlo Cosco, in un capannone della periferia milanese. Sua figlia Denise ha testimoniato nel processo contro i presunti assassini della madre, costituendosi parte civile. Una nuova generazione che prende posizione. Con coraggio e dolore. Come quello contenuto nelle lettere disperate scritte dal carcere da Giuseppina Pesce, amica di Maria Concetta Cacciola. Parole struggenti ai figli per convincerli a distinguere fra il male e il bene. Fra vita e sopravvivenza. Per evitare che suo figlio finisca in carcere, come altri uomini della famiglia, e che le due figlie sposino uomini di ’ndrangheta.
Facendo la sua fine. Giuseppina ha deciso infatti di collaborare fornendo informazioni fondamentali per ricostruire l’organigramma della famiglia ndranghetista e ammettendo le proprie responsabilità.
Storie di donne tradite dalle loro famiglie. Ma anche di donne che stanno piegando le mafie. Preoccupano perché creano scompiglio e insinuano dubbi, danno “cattivo esempio”.
Prima di loro era accaduto alla siciliana Rita Atria, la giovane testimone di giustizia di Partanna, che invece di andare a scuola, un giorno, dopo la morte del padre e di suo fratello coinvolti in affari mafiosi, invertì la rotta e decise di collaborare. Abbandonando la madre e la sua Sicilia. E fidandosi di un uomo, Paolo Borsellino, che fu per lei un padre.
«Forse un mondo onesto non esisterà mai ma chi ci impedisce di sognare? Forse, se ognuno di noi prova a cambiare. Forse, ce la faremo». Lo scrisse Rita nel suo diario prima di buttarsi dal settimo piano del palazzo a Roma in cui stava provando a
ricrearsi una vita. Lo fece ad una settimana dalla strage di via d’Amelio convinta che, dopo la morte del giudice Borsellino, nessuno avrebbe potuto proteggerla davvero. Sua madre, dopo il funerale, prese a bastonate la sua lapide.
Non la perdonò mai. La famiglia di Maria Concetta, secondo le indagini condotte dal Tribunale di Palmi, le impediva di uscire di casa e di avere amicizie, soprattutto da quando il marito Salvatore Figliuzzi era in carcere a scontare otto anni per associazione mafiosa, condannato nell’ambito dei processi “Passo Passo” e “Bosco Selvaggio”. La facevano pedinare. A giugno del 2010 il padre Michele e il fratello di trent’anni, Giuseppe, avendo appreso da lettere anonime che Maria Grazia aveva una relazione extraconiugale, le avevano fratturato una costola impedendole qualsiasi cura in ospedale. La costrinsero
a rimanere chiusa in casa dove veniva curata di nascosto.
Bisogna dire basta. Quello che non riuscì ad Angela Donato, ex
‘ndranghetista che decise di cambiare vita quando cullò per la primavolta suo figlio Santino. Exmoglie e amante di due boss, lei che i codici d’onore e la ‘ndrangheta li conosceva bene, partorendo aveva deciso di cambiare vita. Ma suo figlio Santino si innamorò della moglie di un boss in carcere, firmando la sua condanna a morte. Molti errori commessi da ‘ndranghesti sono avvenuti per amore. Vendette, tradimenti, ripercussioni per lavare il peccato. Perché la ndrangheta non dimentica. E così, per una lenta vendetta, Santino venne sequestrato e fatto a pezzi nel 2002 e di lui si ritrovò solo l’osso di un piede da cui fu possibile risalire al Dna.
Don Ciotti, nel libro «L’osso di Dio»di Cristina Zagaria che ne raccoglie la storia, scrisse che anche le donne, soprattutto, le donne possono sfidare e battere le mafie.
L’Unità 10.02.12