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“Ventenni senza lavoro e senza studio. I rischi di una generazione «stritolata»”, di Maurizio Ferrera

Qualche mese fa la Confederazione europea delle associazioni giovanili ha lanciato l’allarme: il credit crunch rischia di trasformarsi in uno youth crunch , ossia in una vera e propria morsa «stritola-giovani».
Gli ultimi dati Eurostat e Ocse sulle forze di lavoro segnalano che lo scenario si sta purtroppo avverando. Nel primo trimestre 2009 il numero di disoccupati Ue al di sotto dei 24 anni ha raggiunto i cinque milioni. In termini percentuali, la disoccupazione giovanile è non solo più del doppio rispetto a quella totale (18,3% di contro all’8,3%), ma sta crescendo molto più velocemente.
Come sottolinea il rapporto Ocse sull’occupazione 2009 la crisi sta ricreando quel solco generazionale nell’accesso al lavoro che le economie europee avevano cominciato faticosamente a colmare a partire dal 2005.
L’Italia si trova in condizioni particolarmente gravi. La disoccupazione fra gli under 24 ha superato il 25% negli ultimi mesi: 5 punti in più dell’anno scorso, mezzo milione di ragazze e ragazzi. Nella classifica europea siamo superati solo da Spagna e Lettonia. Conosciamo la principale causa del fenomeno: i giovani accedono al mercato del lavoro essenzialmente tramite contratti «a-tipici» e questi sono stati i primi ad essere falcidiati dalla crisi.
Come ben spiega una recente ricerca di Berton, Richiardi e Sacchi ( Flex-insecurity, Il Mulino) nel nostro paese la flessibilità ha generato una «precarietà» di lavoro e di vita che si concentra fra le categorie socialmente e anagraficamente più deboli.
Anche negli altri Paesi molti giovani all’inizio devono arrangiarsi con dei «lavoretti». Ma si tratta di una fase relativamente breve, tutelata da trasferimenti pubblici in caso di disoccupazione e spesso accompagnata da percorsi di consolidamento formativo e addestramento professionale. Nel nostro Paese la transizione scuola-lavoro è molto più difficile e accidentata. Se non riescono a saltare il fossato che li separa dai segmenti buoni e «garantiti» del mercato occupazionale, i giovani italiani restano a lungo intrappolati nel limbo dell’insicurezza, con intervalli senza lavoro e senza reddito che ora tendono a diventare più lunghi e frequenti. Quando il contratto non viene rinnovato, l’unico ammortizzatore affidabile resta la famiglia. Oltre alla disoccupazione in senso stretto, la crisi rischia però di aggravare una sindrome ancora più preoccupante del nostro mondo giovanile: l’inattività «improduttiva». In Italia è molto alto il numero di under 24 (compresi numerosi teenager) che non fanno nulla: non studiano, non hanno un lavoro e non lo cercano attivamente (e dunque non sono, tecnicamente, disoccupati), non partecipano ad alcun programma formativo. È vero che i giovani cosiddetti «Neet» ( not in education, employment or training ) sono in crescita in tutta Europa. Ma secondo le stime della Commissione europea l’Italia è il paese con la percentuale più alta: circa il 22% nel gruppo di età 20-24, un livello superato solo da Romania e Bulgaria. Da noi chi entra nella condizione di Neet tende inoltre a restarvi più a lungo (anche anni): per scoraggiamento, assenza di alternative, semplice inerzia.
Quali prospettive si aprono ad un paese che non offre opportunità, stimoli e incentivi ai propri giovani? Come siamo arrivati al punto che un italiano su cinque fra i 20 e i 24 anni si è ridotto a «non far nulla», a non essere coinvolto e impegnato in quelle attività da cui dipende il percorso della vita adulta?
E, soprattutto, come uscire da questa situazione?
Fra i tanti dibattiti d’autunno, sarebbe auspicabile fare un po’ di spazio anche a queste domande.
Si sostiene spesso che le caratteristiche del nostro sistema bancario e finanziario ci abbiano protetto dagli effetti più devastanti del credit crunch. Senza azioni concrete e ambiziose a favore dei giovani, siamo però destinati a registrare lo youth crunch più intenso d’Europa. Un primato disastroso: vorrebbe dire che abbiamo davvero «stritolato» una generazione di italiani e, con essa, le nostre prospettive di benessere e sviluppo per i prossimi decenni.

dal Corriere della Sera

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