L´occupazione, in Italia, sta assumendo il profilo di una catastrofe sociale. I disoccupati sono almeno 3,5 milioni. Altri 250.000 posti sono a rischio nel corso del 2012, cui vanno aggiunti un miliardo di ore di cassa integrazione. I precari, molti vicini alla mezza età, sono almeno 3 milioni. Tanti disoccupati e precari comportano decine di miliardi sottratti al reddito familiare e alla domanda interna. Comportano pure costi umani inauditi, e tensioni sociali crescenti.
Dinanzi a tali segnali di allarme rosso, governo e parti sociali si sono messi a discutere anzitutto su come modificare i contratti di lavoro. Il presidente del Consiglio decanta la bellezza del cambiare ripetutamente posto e accettare nuove sfide. La ministra del Lavoro annuncia che la riforma si farà con o senza il dialogo. I sindacati si irritano perché vedono in tali annunci l´intento di rendere più facili i licenziamenti. Per lo stesso motivo la Confindustria plaude alle dichiarazioni governative.
Nessuno dubita che siano tutti in buona fede. In base alla dottrina che professano, si può star certi che i membri del governo credono davvero che le “nuove regole sui licenziamenti per ragioni economiche relative ai contratti permanenti di lavoro”, richieste da una lettera del commissario europeo Olli Rehn del novembre scorso, servano ad aumentare l´occupazione e ridurre la precarietà. E di certo i sindacati hanno ragione nel temere un peggioramento delle condizioni di lavoro se si comincia con il modificare i contratti.
Il problema è che appaiono anche tutti sulla strada sbagliata. In quanto è stato finora detto e ridetto da membri del governo (oltre ad asserire che ce lo chiede l´Europa), dai sindacati (salvo affermare, e si può essere d´accordo, che l´articolo 18 non si tocca) o dalla Confindustria (per la quale l´articolo 18 è il maggior ostacolo allo sviluppo), non c´è una sola indicazione che riguardi da vicino il problema di quanto, entro quale data, con quali mezzi si voglia ridurre il numero dei disoccupati e dei precari.
Si prenda il caso della “flessibilità buona”, un ossimoro (difficile dire se geniale o perfido) coniato da poco. Se ha un senso, essa significa che le imprese dei settori in crisi perché obsoleti o superati dalla competività cinese, possono sì licenziare i dipendenti invece che metterli in Cig per due o tre anni; però esistono meccanismi che provvedono in modo sollecito a ricollocare i medesimi, magari dopo un periodo di riqualificazione, in imprese con sicure prospettive. Si dirà che questo è appunto l´intento del governo. Ma è proprio qui che sta l´errore. Le imprese in crisi hanno nome, indirizzo e un dato numero di dipendenti. Le imprese ed i settori in sviluppo pure. Il numero dei lavoratori da ricollocare può e deve essere determinato: sono tutti quelli delle imprese in crisi, o solo una data fascia di età di essi, o altro? Infine i percorsi di ricollocazione hanno un costo, anch´esso determinabile in base al numero di lavoratori che si vogliono coinvolgere e alla durata dei relativi programmi. Un ragionamento analogo si potrebbe fare circa il numero dei precari che si vuol togliere dalla loro condizione, riducendo il numero dei 46 tipi di contratti esistenti. La strategia è sempre la stessa: prima si provvede a stabilire quante persone si vogliono coinvolgere in un piano di riduzione della precarietà, quali sarebbero i costi, da dove verrebbero le risorse, e quali sarebbero i tempi. Poi si passa a esaminare quale tipo di contratto potrebbe risultare efficace, oltre che equo e decente, per perseguire lo scopo di ridurre di una data quantità il numero dei precari.
Partire da scopi reali e quantificati per ridurre disoccupati e precari non significa sminuire il ruolo della legislazione del lavoro. Significa riportarlo alla sua funzione primaria di ottenere che le condizioni di lavoro siano aderenti agli articoli della Costituzione che di esse si occupano. Per creare occupazione la ricetta è un´altra: decidere come si fa a crearla davvero, e farlo.
La Repubblica 03.02.12
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“Nuove regole per vivere senza il posto fisso”, di IRENE TINAGLI
La realtà è questa: in Italia ci sono oltre 10 milioni di persone, tra cui moltissimi giovani, che vivono situazioni di lavoro inesistenti oppure estremamente precarie. E per precarie, sia ben inteso, non si intende semplicemente un contratto a tempo determinato, ma si intende una posizione di lavoro in cui non si ha alcuna forma di tutela, dove non ci si può permettere di ammalarsi né tantomeno una gravidanza, dove non ci sono ferie pagate né indennità di fine rapporto e dove, come nel caso delle migliaia di persone costrette ad aprirsi una partita Iva pur non essendo professionisti, bisogna anche pagarsi da soli i contributi che normalmente paga il datore di lavoro. Per queste persone il miraggio non è tanto il posto fisso, ma condizioni di lavoro degne di questo nome, e un qualche supporto che le aiuti quando un contratto finisce e hanno bisogno di tempo o di nuova formazione per trovarne un altro. Milioni di giovani di fatto chiedono questo. Quello che già hanno gran parte dei loro coetanei nel resto d’Europa.
Di fronte a questa realtà possiamo fare due cose. Possiamo dire a questi giovani che non devono stare a guardare questi «dettagli», ma che devono aspettare e puntare al posto fisso, come i loro nonni e i loro padri, perché quando ce lo avranno vivranno felici e protetti per il resto dei loro giorni. Poco importa se la competizione internazionale ha reso i mercati talmente instabili che le aziende non assumono più con contratti fissi. Poco importa se quel posto arriverà tra venti anni o forse mai. L’importante è tenere vivo l’obiettivo. Nel frattempo alle aziende che non riescono a sopravvivere offrendo contratti vecchio stampo si concede una serie di possibilità contrattualistiche ad altissima «deregolamentazione». In questo modo le aziende sono più o meno contente, i sindacati pure. I giovani un po’ meno, ma pazienza. Gli resta comunque il sogno di entrare prima o poi a far parte dei lavoratori «veri».
Oppure possiamo dire a questi giovani che, viste le turbolenze economiche attuali e con aziende che aprono e chiudono nel giro di pochi mesi, sarà sempre più difficile avere un posto che duri tutta la vita. Che se continua così si ritroveranno in milioni a scannarsi per poche migliaia di posti che arriveranno quando saranno impoveriti e stremati. E possiamo quindi provare a rendere questo percorso meno logorante. Da un lato, cercando di stimolare le imprese ad assumere, allentando le incertezze più gravose (come quelle delle cause di lavoro per reintegro che durano anni), alleggerendo la burocrazia e provando a rilanciare un po’ di investimenti. Dall’altro lato creando per questi giovani lavoratori, col coinvolgimento di Stato e aziende, nuove reti di sicurezza che in caso di malattia, gravidanza o ricerca di nuovo lavoro, non li lascino soli con la promessa che «quando avranno il posto fisso sarà tutto diverso».
La prima strada è quella che abbiamo perseguito sino ad oggi. La seconda è quella che il governo Monti dice di voler intraprendere. Si può certamente discutere sui bei tempi che furono, e, più seriamente, sugli strumenti che verranno adottati e sul come implementarli. Ma non si può dire che cercare di riformare un mercato del lavoro e del welfare squilibrato come il nostro sia sbagliato. Perché l’obiettivo, almeno per come è stato presentato fino ad oggi da Monti e da Fornero, non è smantellare un sistema di tutele, ma ridisegnarle per fare in modo che milioni di persone che oggi hanno poco lavoro e zero protezioni, possano finalmente ritrovare un po’ di speranza. Non ci dimentichiamo che oggi, al di là dei due milioni e duecentoquarantamila disoccupati, più della metà dei lavoratori italiani non è protetta né dall’articolo 18 né, molto spesso, da forme di tutela assai più basilari: quattro milioni e centomila dipendenti di imprese con meno di 15 addetti, un milione e mezzo di collaboratori autonomi tipo cocopro, un milione e mezzo di interinali o con contratti a termine, mezzo milione di stagist, un milione di collaboratori domestici, e due milioni e mezzo di irregolari. Per non contare la marea di partite Iva che di fatto operano come lavoratori dipendenti. E’ chiaro che ridisegnare un sistema in questo senso chiama in causa tutti: le aziende – che non potranno più avere l’alibi di regole troppo rigide per andare a questuare sussidi allo Stato; i sindacati – che dovranno trovare un modo di fare lotta sindacale incentrato sulla persona, la sua formazione e crescita più che sul posto di lavoro; e infine lo Stato – che dovrà garantire formazione e servizi efficienti e vigilare sul funzionamento del mercato. Certamente questo ridisegno richiede estrema cura, per evitare gli errori e le distorsioni delle riforme passate. Ma proprio questa cura e questo concorso di forze sono necessarie per ridare a tante persone una serenità che un tempo veniva trovata da molti nel lavoro fisso ma che oggi ha bisogno di nuovi strumenti per essere raggiunta da tutti.
La Stampa 03.02.12