I diciannove lavoratori di Pomigliano posti ieri in mobilità rappresentano un costo annuo insignificante per la multinazionale dell’auto: meno di quel che guadagna Marchionne in una settimana. Ma vengono sacrificati come ostaggi in una guerra che Fiat ha dichiarato non solo contro il sindacato metalmeccanico col maggior numero di iscritti, ma anche contro la magistratura italiana, cioè lo stato di diritto, e quindi contro le regole condivise della nostra collettività.
Possibile che gli azionisti della Fiat, vincolati moralmente da un debito di gratitudine alle istituzioni di questo paese, non avvertano l’esigenza di dissociarsi al più presto da questo diktat che li ricopre di discredito? Ci auguriamo, anche nel loro interesse, che un tale provvedimento senza precedenti, mai concepito neppure ai tempi dei licenziamenti politici per rappresaglia, venga revocato al più presto. E che il ministro Fornero, artefice di una recente modifica dello Statuto dei lavoratori, faccia presente a Marchionne che colpire degli innocenti come ha fatto è inaccettabile da un governo col quale dovrà ridefinire i suoi progetti futuri.
Sembrerebbe purtroppo che mettersi dalla parte del torto rientri in un piano di provocazione consapevole da parte della direzione Fiat; la quale proclama di voler mantenere in attività i suoi stabilimenti italiani ma rifiuta di precisare i termini degli investimenti necessari a tale fine. In altre parole, sembra che la Fiat stia cercando delle scuse per andarsene dall’Italia. Sommare un nuovo torto al reato di discriminazione
sindacale già riconosciuto in due gradi di giudizio non è accettabile neanche da parte di chi abbia già traslocato mentalmente a Detroit.
Dalla rappresaglia contro gli iscritti alla Fiom ora la Fiat passa alla rappresaglia contro i lavoratori in genere. Diffonde la paura negli stabilimenti, trasmettendo l’idea che “per colpa” dei pochi che hanno osato difendere i propri diritti facendo ricorso e ottenendo giustizia, a pagare potrà essere chiunque. È la legge della giungla importata in fabbrica: un imbarbarimento delle relazioni fra impresa e lavoratore che dovrebbe far scattare l’allarme di tutti i sindacati, a prescindere dalle loro divisioni. Sarebbe davvero miope da parte dei dirigenti delle confederazioni che non hanno condiviso la linea intransigente di Landini illudersi di poter trarre vantaggio da un tale ricatto. In queste condizioni è negato qualsivoglia spazio negoziale nelle fabbriche Fiat. Viene meno l’idea stessa di contrattazione collettiva. Ma più ancora, si precipita il conflitto sociale al di fuori di ogni regola, col rischio di favorire l’estre-mismo dei disperati e la sua strumentalizzazione.
Intorno ai trentotto lavoratori di Pomigliano trascinati dalla Fiat a un conflitto fratricida – i 19 iscritti alla Fiom di cui è stato ordinato il reintegro, e gli altri 19 che dovrebbero cedere loro il posto – deve stringersi la solidarietà democratica di chi ha ancora a cuore i diritti dei lavoratori. La storia ci insegna che rinunciare a questi diritti fondamentali non produce né benessere né crescita, bensì arretramento sociale e perdita di civiltà.
La Repubblica 01.11.12
Pubblicato il 1 Novembre 2012