Sulla notte genovese della Scuola Diaz la sentenza numero 3885 fa finalmente chiarezza. La condotta della polizia nell’irruzione, dice la sentenza, «fu un puro esercizio di violenza». E questo lo sapevamo. Lo disse subito questo giornale che non ha più cessato di ricordarlo. Da allora la vigilanza dell’informazione democratica ha permesso che la coscienza dell’enormità dell’accaduto si facesse strada a forza nello spazio della vita civile vincendo l’incredulità più o meno faziosa e i maldestri tentativi di minimizzare.
Quel giorno ci svegliammo all’improvviso, straniati, in un Paese irriconoscibile. La scuola Diaz è diventata il luogo simbolo di una alterazione intollerabile delle regole di convivenza tale da farci vergognare di essere italiani. Dura da quella notte il senso di una mutazione del sistema Italia. “Scuola Diaz” è diventato un promemoria capace di segnare meglio di ogni altro il punto di passaggio a un diverso ciclo storico della nostra repubblica. Certo, anche nei decenni precedenti c’erano state manganellate e spari. Ma non quella macelleria senza limiti, non quei corpi e quelle teste sanguinanti, non quelle ossa rotte, non lamenti e preghiere di giovani inermi aggrediti con spaventosa violenza nel sonno e nella quiete di una notte genovese. La vita italiana fece allora un balzo verso dimensioni ignote e spaventevoli, che si faticò a definire se non col solito rinvio al nostro peggiore passato, il fascismo. Per misurare quanto diverso fosse diventato il panorama del Paese bastava pensare a quel che era accaduto negli stretti spazi dell’antica città di mare nel luglio 1960 quando da lì era venuto il segno di un rifiuto senza appello al governo clericofascista di Tambroni e al tentativo di riportare indietro un Paese ormai cresciuto nella libertà. Ma quella che si era annunciata col pestaggio della Diaz era una fase nuova e inaudita, dove lo scontro non era tra masse vigili, determinate, aggressive di manifestanti e le cariche di “alleggerimento” delle forze di polizia, ma tra uomini in divisa ebbri di violenza contro persone giovani, inermi, indifese come può esserlo chi giace nell’abbandono fiducioso del sonno. Le parole della sentenza sono proprio queste: «Le violenze, generalizzate in tutti gli ambienti della scuola, si sono scatenate contro persone
all’evidenza inermi, alcune dormienti, altre già in atteggiamento di sottomissione con le mani alzate e, spesso, con la loro posizione seduta in manifesta attesa di disposizioni ». Su quelle persone, dormienti o sedute, supplici, sottomesse, fiduciose, si esercitò una violenza «non giustificata e punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione e alla sofferenza fisica e mentale delle vittime». La sentenza va oltre questa denunzia: ci dice come e perché, e per colpa di chi, avvenne il massacro che lasciò 87 feriti anche molto gravi e insanguinò le pareti e i pavimenti di quella scuola. Leggiamola attentamente, perché una volta di più abbiamo l’occasione per imparare qualcosa sui comportamenti della polizia e sulle regole che governano corpi speciali sempre esposti per loro natura a subire l’attrazione dell’arbitrio e dell’illegalità. Sapevamo già che gli agenti erano apparsi al prefetto La Barbera in preda a un certo nervosismo, tanto da fargli pensare che si preparavano cose gravi perché, come lui disse, “ognuno conosce gli animali suoi”. Attenzione però: animali quegli uomini lo erano diventati non per la forza di un istinto naturale ma per effetto di un ordine: c’era stata l’esortazione del comandante Giovanni De Gennaro a “riscattare l’immagine della Polizia”. Dunque quei poliziotti erano stati caricati deliberatamente di un’aggressività obbligata, nutrita di senso del dovere, potenziata dall’idea dell’impunità di un corpo non soggetto alla legge, libero di superare il confine dell’illegalità perché c’era chi gli garantiva il privilegio dell’impunità. E fu proprio chi aveva la funzione del comando a creare verbali menzogneri “funzionali a sostenere così gravi accuse”, tali da giustificare arresti di massa e a indurre i pubblici ministeri a chiedere la convalida di quegli arresti.
Questo è il punto nuovo e importante che la sentenza chiarisce. Qui
si sposta finalmente l’attenzione verso l’alto, verso i vertici finora lasciati in ombra e sfuggiti col silenzio o con la copertura omertosa alle loro responsabilità. E si entra nella dinamica dei corpi scelti e delle logiche dell’obbedienza che possono trasformare gli individui più banalmente normali in macellai di carne umana. Sappiamo di quali imprese furono capaci nel Terzo Reich quei buoni borghesi di Amburgo che un ordine dall’alto e una divisa fecero diventare assassini professionali, capaci di straordinaria efficienza nell’eliminare intere comunità di ebrei. E basterebbero gli esperimenti di laboratorio sui meccanismi dell’obbedienza per spiegare quali effetti possa avere un ordine impartito da un comandante di polizia a un corpo militarizzato. Sulle loro spalle gravava il compito di “riscattare l’immagine” di tutta e intera la polizia italiana. C’era stata la giornata precedente, la devastazione, i saccheggi, una gestione dell’ordine pubblico talmente disastrosa e insipiente da far pensare addirittura a una pianificazione deliberata del disordine. Fu per rimediare e cancellare errori e mancanze vergognose che De Gennaro spedì centinaia di uomini in assetto militare a compiere qualcosa di ben più vergognoso: qualcosa che, invece di riscattare l’immagine della polizia l’ha resa ancora più sporca, tanto da porre con urgenza a chi di dovere il compito di provvedere alle sanzioni opportune e necessarie. Anche perché stavolta c’è qualcosa di più importante dell’immagine di un corpo dello Stato: quel che fu compiuto allora – nota la sentenza della Cassazione – “ha gettato discredito sulla nazione agli occhi del mondo intero”. Forse, grazie anche ai magistrati della Cassazione, si può finalmente cominciare a uscire dalla notte genovese della democrazia.
Pubblicato il 3 Ottobre 2012