«Vuol dire che con le Regioni si decentreranno anche le bustarelle». Mai previsione di uno dei pionieri del regionalismo (non sto a far nomi, sono passati decenni) fu più azzeccata. «Ma vedrai che gli esempi virtuosi di certe Regioni finiranno per contagiare le altre…». Mai previsione fu meno azzeccata, purtroppo. C’è una furente indignazione attorno ai protagonisti dello scandalo alla Regione Lazio, dove il presidente sostiene di non aver neppure percepito l’odore di quella fiumana di soldi finita ai gruppi consiliari e da qualcuno – come Francesco Fiorito – utilizzata nel modo più insultante per i cittadini. E c’è subito chi propone: torniamo allo Stato centralista e ai suoi controlli.
Lo Stato delle Regioni (lasciamo perdere quello federale che non è mai nato, concepito dalla Lega per rompere l’unità del Paese) non ha fatto molto perché ora, nel pieno dell’indignazione, non si butti via, assieme all’acqua sporca (parecchia), la creatura partorita nel 1970. Sarebbe una assurdità. Ma perché tutto ciò è successo? Come ha scritto lucidamente lo studioso dell’amministrazione (ora deputato del Pd) Guido Melis, perché «il sonno dei controlli genera mostri». Si sono devitalizzati, nelle autonomie, il rapporto governo-opposizioni e i controlli esterni su Regioni ed Enti locali. L’elezione diretta di sindaci, presidenti, governatori, ha certo rafforzato la governabilità, ma ha pressoché sterilizzato il ruolo delle assemblee elettive, il cui palese e impotente scontento è stato placato a suon di euro. Si sono scissi Giunte e Consigli spegnendo ogni vera opposizione, anche individuale. Siamo dunque passati da un assemblearismo a volte eccessivo (consentito peraltro da leggi che rimontavano a Giolitti) all’afasia dei Consigli. Le decisioni significative sono diventate atti di Giunta. Sovente anche quelle sulla «torta» fondiaria, immobiliare.
Mentre fondi e poteri venivano decentrati (e si avvicinavano agli appetiti locali), sono stati depotenziati i controlli effettivi, gli apparati ispettivi, i quadri tecnici, per esempio sugli appalti, con un lassismo urbanistico senza fine. Tanto più col Titolo V della Costituzione, pieno di buchi in materia. Oggi ci stupiamo che i materiali sanitari di base possano costare 10 in una Regione e 80-100 in un’altra, ma chi poteva fissare dei parametri nazionali nel clima che spingeva verso i magnifici «risparmi» del federalismo? Non rimpiango i Coreco, e però i Coreco.co come si è sottolineato l’altra sera a Ballarò – impersonati non da tecnici qualificati (in economia prima che in diritto), ma da politici dell’opposizione, portano al coinvolgimento di tutti in un’unica giostra. Ed è sbagliato. È la stessa malattia che ha fatto diventare le nostre Authority la caricatura di quelle vere.
I partiti, purtroppo, si sono o liquefatti davanti ad un «padrone», oppure arroccati su posizioni burocratico-oligarchiche facendo muro, in tutt’e due i casi, alle critiche interne, ai gruppi di opinione, «nominando» personaggi «mediocri purché fedeli» (lo scrivemmo Nando Tasciotti ed io in un libro lontano uscito da Laterza prima di Tangentopoli, «La crisi dei Comuni»). Tutto ciò ha spinto i movimenti, numerosi e generosi, ad essere tanto radicali quanto estemporanei, tanto «indignatos» quanto poveri di proposte. Ma cos’è rimasto ai cittadini, dopo leggi elettorali come il Porcellum, col totale permissivismo in materia di spese elettorali personali, con l’uso distorto (anche malavitoso) del nobile istituto delle preferenze? Poco o nulla. Aggiungiamoci i guasti provocati nella dirigenza pubblica di carriera dallo spoil system, dal non aver attrezzato sezioni regionali della Corte dei conti, dall’aver promosso burocrati locali «più permeabili», ecc., e avremo un primo quadro delle tante cose da fare, da ricostruire per rendere meritocratica e trasparente la politica, per ridare alcuni strumenti di controllo ai cittadini (tramite gli eletti dal popolo) e altri ad organismi «terzi» di grande qualificazione. Nella cui nomina i partiti non devono neppur provare ad entrare. Insomma, una spending review delle Regioni non basta proprio. È soltanto un inizio. Ci vuole ben altro. Una ricostruzione.
L’Unità 27.09.12
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“Province, a chi i tagli a chi le ostriche”
L’opinione di Andrea Barducci, Presidente della Provincia di Firenze – L’Unità
di Andrea Barducci. Mentre le Province venivano depredate di ogni risorsa necessaria al funzionamento dei servizi, nelle Regioni c’era chi poteva permettersi anche le ostriche. È questa la fotografia che meglio di ogni altra immagine rende l’idea di quello che è successo in Italia nell’ultimo triennio. In pratica chi doveva realizzare scuole, mantenere le strade, organizzare i trasporti pubblici o progettare i ponti, veniva progressivamente e inesorabilmente privato di risorse finanziarie, mentre i soldi ancora abbondavano nei luoghi in cui ci si limitava a pianificare. Anzi, mentre per i gruppi consiliari di qualche Regione gli stanziamenti milionari aumentavano in modo esponenziale, la scure dei tagli si abbatteva pesantemente sui bilanci degli enti provinciali. E pazienza se mancano i soldi per mettere in sicurezza le scuole. I terremoti possono aspettare, le ostriche no.
Per una sorta di schizofrenia collettiva si è diffuso nell’opinione pubblica il pensiero distorto secondo il quale l’istituzione delle Regioni in Italia avrebbe dovuto comportare automaticamente la scomparsa delle Province. Anche se la Costituzione diceva cose ben diverse, qualcuno disinformato o in malafede ha deciso che l’Ente provinciale era diventato un ente inutile da sopprimere. Non solo, mentre alcuni consiglieri regionali si esercitavano in un uso disinvolto dei fondi pubblici, le Province si affannavano a proporre riforme in grado di ottenere un risparmio di 5 miliardi di euro, chiedendo l’accorpamento, l’istituzione delle Città metropolitane e la riduzione degli organi periferici dello Stato, l’eliminazione di tutte le agenzie e degli innumerevoli consorzi.
Complice una campagna grossolana, condotta con rigorosa tecnica di populismo mediatico, si è fatto credere che le «inutili province» producevano solo spreco di denaro pubblico. E quindi per razionalizzare la spesa sarebbe bastato delegare tutto alle Regioni, presentate come unica espressione di un federalismo virtuoso. Inutile far notare che in Italia vi erano Regioni che avevano meno abitanti della Provincia di Firenze. In realtà al momento di mettere le cifre sulla carta tutti si sono accorti che l’abolizione della Province non avrebbe prodotto nessun risparmio apprezzabile. E a questo punto è parso evidente a tutti che, per coniugare razionalità della spesa e funzionamento della macchina pubblica, non si dovevano cancellare le Province, ma semmai ridurne il numero. Peccato che nel frattempo lo Stato avesse già iniziato a chiudere il rubinetto dei finanziamenti destinate alle Province, nella convinzione che ormai fossero destinate alla soppressione, come annunciato orgogliosamente ma prematuramente da Mario Monti nella sua prima conferenza stampa da premier.
L’Unità 27.09.12
Pubblicato il 27 Settembre 2012