Il Lazio dopo la Lombardia. Frana l’antipolitica di destra che vent’anni fa ha preso il potere in nome della società civile, dell’azienda, del mercato. Con la decadenza di ogni minimale anticorpo etico-politico, il Lazio è la metafora di cosa diventa un governo personale che agisce senza il contenimento svolto dai partiti e dal principio di legalità. Al potere si insediano schiere di anti-politici di professione che maneggiano i fondi senza ritegno. Ciò che è pubblico diventa faccenda privata perché il privato è il veicolo per la occupazione del pubblico visto come il prolungamento del calcolo economico del singolo politicante. Cos’è infatti la politica per tanta destra amministratrice? È un agglomerato di potenze private che racimolano media e denaro per dare l’assalto all’amministrazione, luogo ghiotto in cui nell’omertà si intrecciano affari, influenze, scambi. Singoli consiglieri regionali che si spartiscono i finanziamenti sono la versione caricaturale dei partiti personali egemoni nella seconda Repubblica. Ogni eletto sensibile all’odore dei soldi fa partito a sé, e quindi intesta ai propri conti le quote pubbliche. Servono per pagare una vita dorata e per preservare una macchina personale con la quale gestire gli spazi di potere.
La destra, che ha occupato il potere agitando i miti dell’antipolitica, non dispone di alcun antidoto alla decomposizione etica del governo locale. Ha selezionato un ceto politico la cui molla per l’impegno non era il desiderio del potere, come occasione di onore, prestigio ma l’avidità di ricchezza. L’intreccio di potere e denaro determina fenomeni infernali: la regione o il municipio sono visti come una azienda produttiva da usare per accumulare soldi. Con quale autorevolezza i vertici del Pdl possono censurare la commistione di pubblico e privato, di azienda e potere, che a Roma assume vesti grottesche ma che è comunque l’essenza del berlusconismo? Un partito azienda, che si scalda soltanto quando sono in gioco le concessioni televisive, o gli introiti pubblicitari, che rampogna può mai fare a un ceto politico locale che prende sul serio la privatizzazione del potere? La destra non ha gli strumenti per reagire alle malefatte perché il partito è solo una sigla di comodo che consente a cordate prive di scrupolo di dare la scalata alla carica elettiva per fare denaro. Questo scenario chiama in causa anche il rendimento del presidenzialismo regionale. Dove, nonostante il diluvio, permangono le condizioni minimali di una vitalità della società civile (associazionismo, partecipazione collettiva nei sindacati, nelle cooperative, nei circoli) e si incrociano residui di partito, anche il funzionamento delle autonomie rimane accettabile.
Nelle regioni rosse il duello tra presidente e partito non ha raggiunto i picchi di degrado che altrove sono associati alle tendenze leaderistiche. Dove l’elezione plebiscitaria del governatore interviene nella profonda carenza di strutture organizzative, nella cronica assenza di canali di civismo, le discontinuità visibili nella forma di governo passano senza alcun significativo miglioramento nelle prestazioni dei pubblici poteri. In Calabria, in Campania o in Sicilia il deserto di partito e la mancanza di una solida società civile incrementano le spinte verso l’allestimento di poteri personali (d’ogni colore) sorretti dallo scambio occulto tra consenso e risorse.
La micidiale accoppiata tra elezione diretta del governatore e uso delle preferenze accentuano gli aspetti deflagranti di un disegno istituzionale in cui accanto alla macropersonalizzazione (del governatore) marcia la micropersonalizzazione (dei consiglieri eletti con dispendiose gare competitive e con deliranti manifesti 6 per 6). Il caso del Lazio è la massima estensione di un fenomeno di personalizzazione connesso al perverso circolo denaro-sostegno-denaro che spezza alla radice ogni autonomia delle classi politiche. Una organica contaminazione affaristica sembra accompagnare le disavventure di ogni destra di governo.
La differenza tra destra e sinistra conta ancora molto nella misurazione delle diverse velocità raggiunte dalle esperienze regionalistiche. Ma se la strada prescelta è quella del partito degli eletti, sarà difficile anche a sinistra contenere le organiche tendenze alla degenerazione che restringono gli spazi della militanza e alimentano le illusioni dell’antipolitica, cioè l’attesa di un crollo repentino di un intero ceto dominante da sostituire in condizioni di emergenza con uno nuovo personale che avrà la stessa sorte dinanzi ad una ennesima ondata di discredito. La forma del partito degli eletti ha in sé il virus della lenta decadenza etico-politica.
Gli eletti devono contare su risorse autonome, devono accumularne tante per essere investiti nel ruolo di governo. La conquista della carica diventa poi il fulcro per attività in cui potere e denaro si intrecciano, sullo sfondo di deboli partiti mai più rinati. Nei territori singoli imprenditori vanno a caccia di arene istituzionali e giocano in proprio la loro battaglia con un cinismo nichilista. Nel vuoto di società civile, nel deserto di agenzie di partito ogni mossa pare lecita per edificare un feudo impenetrabile. Quasi a nulla sono valse le sperimentazioni dell’ingegneria amministrativa (mutato reclutamento dei direttori generali, nuovi meccanismi delle nomine, separazione di gestione e indirizzo politico).
Se si vuole arginare l’antipolitica non servono solo leggi, regole nuove ma occorre dare continuità all’invenzione organizzativa per disegnare il modello di partito radicato nella società. Le primarie incentivano la partecipazione, accorciano per un po’ il distacco tra società e politica. Hanno però il difetto di registrare lo status quo con cui ogni leader deve stabilire un compromesso. Esse non mutano gli equilibri consolidati nei territori dove la politica ha una difficoltà di accesso, di decisione. Data la decadenza di uno spirito di partito che si avverte in talune realtà territoriali, solo da un centro nazionale forte possono pervenire gli impulsi del mutamento che diano spazio ai nuovi quadri politici e amministrativi, altrimenti destinati ad essere soffocati dalle cordate inamovibili che si riproducono senza intralci. Un partito vero, con dei militanti presenti che nei circoli controllano gli eletti da vicino e riconoscono le capacità dei nuovi quadri è il principale antidoto alla corruzione. Per una più elevata levatura etica delle classi dirigenti ci vogliono militanti e partiti rigenerati dalla abitudine alla partecipazione e dalla selezione della classe politica con la battaglia delle idee. Tocca al Pd insistere con coeren- za su scelte già avviate e che vanno ora consoli- date perché la ricomparsa di un partito solido occupa il tempo di un intero ciclo politico.
L’Unità 24.09.12
Pubblicato il 24 Settembre 2012