Non distruggere ma costruire. Non distruggere il lavoro, la scuola, le reti di solidarietà, le istituzioni democratiche, la speranza di un domani migliore, la fiducia nella politica come riscatto collettivo. Ma costruire insieme una svolta dopo il trentennio del liberismo, dell’ideologia mercatista, della diseguaglianza sociale. Siamo davanti a un bivio e dalla scelta di questi mesi dipenderà un intero ciclo storico. È una partita europea, non solo italiana. Ma senza il nostro Paese, la nostra forza produttiva e sociale, la nostra cultura, le nostre donne e i nostri uomini, le nostre battaglie, l’Europa sarà tremendamente più debole.
Purtroppo sono in tanti a scommettere sulla demolizione, sulla sfiducia, sulla delegittimazione. Il populismo di destra vuole annegare il proprio fallimento in una sconfitta generale del Paese. Il populismo che ha messo radici a sinistra vuole invece screditare ogni progetto riformatore per lucrare consensi sulle sofferenze sociali e la paura del futuro. Ma così la rabbia diventa sempre più disperata solitudine. Chissà se domani verrà un comico, un capo-popolo, un cavaliere bianco che catalizzerà il dissenso attorno a nuovi slogan smaglianti.
Di certo, abbiamo visto come finiscono queste avventure: a pagare i prezzi più alti sono sempre i più deboli. Nei Paesi dove la borghesia ha più senso dello Stato circolano maggiori anticorpi: da noi invece non di rado capita di incontrare strani minotauri, che per un verso applaudono il Grillo fustigatore della democrazia dei partiti e per l’altro verso inneggiano alla soluzione tecnocratica, al Monti-bis permanente.
Dare all’Italia un’alternativa politica è possibile. Anzi, è necessario. Di fronte ai berluscones che vogliono comprarsi anche La7, riducendo ulteriormente gli spazi di pluralismo. Di fronte ai Marchionne e alle drammatiche crisi aziendali che rischiano di distruggere, con la manifattura italiana, il lavoro di oggi e la speranza di domani. Di fronte ai tentativi ideologici di ridurre i diritti sociali anziché investire sull’innovazione, la qualità, la ricerca, i giovani. Di fronte alla corruzione che aumenta. Costruire un’alternativa politica richiede forza, umiltà, altruismo, lotta, capacità di ascoltare, intelligenza, prudenza, soprattutto coraggio. Richiede cultura della ricostruzione: perché il rinnovamento è diverso dal nuovismo e dal nichilismo, e la distanza etica è tanto più grande quanto il cambiamento delle politiche e degli uomini è diventato ineluttabile.
In questo percorso sono collocate le primarie organizzate dal Pd. Che Bersani ha voluto senza rete, assumendo tutti i rischi per sé e il suo partito, persino andando incontro ad incoerenze logiche e di sistema. Dal suo punto di vista, il rischio maggiore era l’autoreferenzialità del Pd, davanti alla disaffezione e al distacco crescente verso la politica. Se il Pd vuole candidarsi a guidare un governo di cambiamento politico deve fare di tutto per colmare questa sfiducia, per dare una dimensione popolare alla propria impresa. Deve rischiare tutto. Allargando l’opportunità democratica, mentre la scena pubblica continua ad essere occupata da partiti personali, da leader carismatici, da despota che non sopportano il dissenso e cercano di spacciare il loro autoritarismo come iper-democrazia. Nella modernità non c’è democrazia senza partiti: chi sostiene il contrario vuole imbrogliare i cittadini e renderli sempre più soli e disperati davanti al mercato e allo Stato. Ma costruire partiti rinnovati e corpi intermedi solidali è una sfida che mette in discussione oggi tutte le rendite di posizione. A cominciare da quelle delle attuali classi dirigenti.
Il problema è con quale cultura il Pd affronterà le primarie. E con quale cultura si presenterà subito dopo alle secondarie, cioè alle vere elezioni (speriamo con una legge elettorale nuova, che cancelli le storture insopportabili del Porcellum, dalle liste bloccate all’incostituzionale premio di coalizione senza limiti). La sfida di Renzi a Bersani, e quella di Vendola, e quella di altri dovranno mostrare da subito una cultura profondamente diversa rispetto ai canoni dell’ultimo decennio. Una diversità che, certo, comincia con le primarie, ma che non può ridursi alle sole primarie. Le primarie restano uno strumento, per quanto raro in un Paese che continua a produrre partiti proprietari. Un partito non si fonda sulle primarie, ma su un’idea di società, di giustizia, di tolleranza, di convivenza civile, di legalità, di redistribuzione del lavoro e della ricchezza, di mobilità sociale. Un partito si fonda anche sulla sicurezza e l’aperturta che sa garantire a tutti i cittadini, compresi quelli che non lo votano. Un partito può guidare la rimonta di un Paese se non promette ritorsioni, se non distribuisce odio, ma sa valorizzare le forze migliori, nelle istituzioni, nella società, nell’economia.
Le primarie per il Pd sono un’opportunità. Possono allargare il campo ad elettori che prima non votavano per il centrosinistra, ma possono anche importare lacerazioni devastanti. Il Pd mette in gioco se stesso. I candidati hanno grandi responsabilità. Le primarie non sono la fiera delle vanità, dove si corre per marcare un piccolo territorio e ipotecare domani una partita personale: in ballo c’è un bene più grande e importante per tutti, la rotta europea del prossimo decennio. Anziché fare le primarie che aveva promesso, la destra prova ora a giocare nelle primarie del Pd facendo il tifo per una disarticolazione. Anziché introdurre qualche minimo elemento di contendibilità nell’Idv o nel movimento di Grillo, i populisti di quelle parti fingono ora di mostrare interesse per i candidati outsider delle primarie. Sarebbe un errore reagire a queste offensive con una chiusura. Bisogna rispondere a testa alta e con spirito aperto: chi vota alle primarie del centrosinistra è moralmente impegnato a sostenere il candidato vincitore, chiunque esso sia. È l’etica dei democratici. Uno dei mattoni che sta alle fondamenta del progetto di ricostruzione.
L’Unità 16.09.12
Pubblicato il 16 Settembre 2012