Anche se non bisognerebbe mai infierire su un avversario a terra, è difficile non commentare l’esultanza della stampa berlusconiana di più stretta osservanza per la spaccatura del Pd prodotta dalle primarie («Tutti contro tutti, e adesso il Pd è morto», titolava ieri, per esempio, il Giornale di Alessandro Sallusti). Un rischio che il Pdl ha deciso prudentemente di non correre, dove ovviamente Pdl sta – come al solito – per Silvio Berlusconi, unico titolato a decidere in materia. D’altra parte, qualora Berlusconi decidesse di non ricandidarsi, e scarseggiassero i delfini ansiosi di provare il trattamento sperimentato quest’estate su Angelino Alfano, non si può escludere che il centrodestra ci ripensi e affidi alle primarie la scelta del suo primo rappresentante (suo di Berlusconi, s’intende).
In molti, tuttavia, sostengono che il centrosinistra non abbia scelto un buon momento per fare le primarie. Ci sono validi argomenti a favore di questa tesi, primo tra tutti il rischio di aprire un confronto nel proprio campo mentre il naturale confronto con l’avversario è di fatto sospeso: il rischio, cioè, che la pressione si scarichi tutta all’interno, con effetti deflagranti. Ma se guardiamo la cosa da un altro punto di vista, è difficile trovare un momento migliore di questo. Basta scorrere le notizie delle ultime settimane: fior di dirigenti e persino ex ministri del Pdl sfilano in tv costretti a pronunciare frasi come «non so se il leader sarà ancora Berlusconi», «bisogna chiederlo a lui», «attendiamo che ci faccia sapere»; il movimento grillino, che doveva rivoluzionare la politica a forza di partecipazione dal basso e democrazia diretta, alla prima critica nei confronti del vertice, caccia via il dissidente tra insulti, accuse e minacce di morte (tanto che ieri la procura di Bologna ha dovuto aprire un’inchiesta); Antonio Di Pietro si conferma intenzionato a lasciare il suo nome nel simbolo, ragion per cui le critiche di Massimo Donadi paiono destinate a cadere nel vuoto, ché fare non diciamo le primarie, ma anche solo una riunioncina per discutere la linea del capo – in un partito che il nome del capo ce l’ha nell’insegna – sarebbe come chiedere a un fan club di John Lennon di intitolare la sede a Toto Cutugno.
Se questi sono quelli che erano scesi in campo contro la «vecchia politica» o contro la «casta» dei nominati, il Pd non poteva scegliere momento migliore per mostrare agli italiani dove stanno le oligarchie inamovibili e indiscutibili, lontane dal Paese e allergiche al confronto. Naturalmente, restano molte buone ragioni per criticare queste primarie, a cominciare dalla confusione tra primarie di coalizione per scegliere il candidato premier del centrosinistra e primarie di partito per cambiare il gruppo dirigente del Pd. Ma sarebbe giusto ricordare sempre che da questo rischio tutti i partiti sopra menzionati sono certamente immuni, non prevedendo al proprio interno alcuna reale forma di democrazia, né diretta né indiretta. Che non è una caratteristica incoraggiante, da parte di chi si candida a governare il Paese.
L’Unità 15.09.12
Pubblicato il 15 Settembre 2012