Essere donna in Afghanistan è difficile. Essere una donna attrice ancora di più. L’assassinio a Kabul di una donna protagonista di una serie Tv e l’allucinante avventura capitata alle sue colleghe, la dice lunga sulla condizione femminile, e sui diritti umani, nel Paese dei Monti. Dopo essere state coinvolte nella violenta aggressione in cui ha perso la vita la giovane Benafsha, lasciata sanguinante davanti a una moschea, le sue compagne, le sorelle Azema e Tamana, sono state condotte in prigione e sottoposte al test di verginità. Il dubbio, o meglio, il pregiudizio, che ha mosso le autorità afgane riguardava la presunta “complicità” delle attrici con quanti le hanno aggredite.
Ipotesi stigmatizzante che, in qualche modo, legittima le minacce di quanti ritenevano le tre colpevoli di “immodestia” per le loro esibizioni in tv. Un’accusa che nel tradizionalista mondo afgano, non solo di matrice taliban, equivale a quella di prostituzione. La modestia, infatti, prevede un atteggiamento pubblicamente contenuto che non deve dare adito a provocazioni, anche solo oggettive, nei confronti dei maschi. Si tratta di una categoria morale ritenuta un obbligo, alla quale qualsiasi donna si deve ispirare. Nel tradizionalismo afgano, sul quale si è innestata la rigida predicazione dell’islam deobandi e del wahhabismo estremo, questo concetto è stato dilatato sino all’estremo.
Nella pedagogia disciplinare dei corpi che il tradizionalismo religioso continua a esercitare in Afghanistan, le attrici, così come le musiciste o le artiste, che osano esibirsi pubblicamente, sono doppiamente colpevoli: in quanto donne e in quanto soggetti che, con la loro professione, trasformano la seduzione in sedizione. Un sentimento collettivo di rigetto che unisce tutta la società maschile, nel tentativo di unificare il corpo sociale mediante la sottomissione del corpo femminile. E che rimanda al tempo scuro dell’Emirato del Mullah Omar, quando non solo venivano distrutti i televisori “portatori di corruzione sulla terra” ma alle donne, espulse dal lavoro, veniva anche vietato di indossare i tacchi: secondo gli “studenti coranici” il loro rumore sul selciato “disturbava i fedeli dal pensiero di Dio”. Una visione del mondo che mostra una concezione delle donne come qualcosa da imbrigliare, sotto il velo o le volte dei dettami della Legge e della tradizione, in quanto potenzialmente dirompente per la coesione sociale.
Constatare il permanere di una simile, diffusa, mentalità, tanto più tra le autorità succedute al regno dei Taliban a undici anni dalla loro caduta, rattrista. È noto ormai che in Afghanistan poteri clanici, gruppi etnici, tribù, signori della guerra, attendono la partenza delle truppe straniere. E che i seguaci del Mullah Omar, con i quali pur si combatte, partecipano, attraverso la mediazione del presidente Karzai, a discussioni sul futuro del paese. La realpolitik prevale su qualsiasi altra considerazione e i talebani sono sempre più forti. Esigenze di carattere strategico inducono, così, i paesi che hanno una presenza militare ai piedi dell’Hindu Kush a non interferire su temi che hanno a che fare con i costumi e con un ordinamento giuridico che si è mostrato, nonostante i diritti acquisiti dalle donne, refrattario a qualsiasi mutamento nelle questioni di genere. Ma quando sarà il momento di fare un serio bilancio sui risultati prodotti dalla politica di nation-building senza society-building, la questione della libertà femminile, cartina tornasole dell’effettivo cambiamento nelle società della Mezzaluna, non potrà essere ignorata. Anche se, purtroppo, il bilancio appare già chiaro.
La Repubblica 08.09.12
Pubblicato il 8 Settembre 2012