La lezione forse più importante degli ultimi anni di crisi economica è l’inconsistenza, la vuotezza del tempo breve. Per chi gioca in borsa il tempo è un attimo. Così per il politico, quando si nutre di sondaggi al punto di fabbricarseli. Per il giornalista, l’imprenditore, il sindacalista, le generazioni future sono nulla, l’immediato è tutto anche se serve a preservare un potere ormai finto.
Già nell’800 Jacob Burckhardt scriveva che l’indebitarsi dello Stato («La più grande, miserabile ridicolaggine del XIX secolo») era un «dissipare in anticipo il patrimonio delle future generazioni: una superbia senza cuore». Non rattrappisce solo il tempo, come la pelle di zigrino di Balzac. Il rattrappimento colpisce anche lo spazio. Tempo breve e spazio corto eclissano artificialmente le più vaste realtà che sono la nazione, l’Europa, il mondo. L’artificio sta ovunque sbriciolandosi perché ha prodotto danni enormi.
Non la crisi è mentale, come dissero gli avversari di Obama e come ripete Berlusconi. È mentale l’illusorio ottimismo consumistico di cui la crisi è stata la nemesi. Citiamo l’Italia perché da noi questa genealogia mentale della crisi persiste, con molteplici rami. Perché il tempo breve qui celebra i suoi fasti, e più che altrove è malato il rapporto col tempo: passato, presente, dunque futuro. Inutile commemorare 150 anni di storia italiana, se di questa malattia non si discute. Ambedue, tempo e luogo, sono pilastri delle storie nazionali e da noi pericolano. Quando Berlusconi vanta i tanti anni a Palazzo Chigi, quando imprime il suo marchio sull’anniversario dell’unità («Credo sinceramente di essere stato e di essere di gran lunga il miglior presidente del Consiglio che l’Italia abbia avuto in 150 anni della sua storia») parla di una cosa apparentemente essenziale: del tempo lungo. Ma è tempo lungo fittizio, centocinquant’anni di storia sono un’emanazione luminescente e plastificata della sua persona e vengono d’un colpo vanificati. Il suo vero tempo è il governare giorno per giorno, come denunciato giovedì da Gianfranco Fini a Gubbio. Lo stesso avvenne in vari paesi sviluppati, prima della crisi: la furia dell’attimo borsistico era la regola, e da essa nascevano i chimerici incanti chiamati bolle.
La mancanza di visione del domani viene spesso identificata con un accidioso attardarsi sul passato. In realtà è il culto idolatrico dell’istante che crea immobilità, se è vero che l’istante nel momento stesso in cui arriva cessa d’esistere. Questo gioco col tempo fabbricato, che lusinga l’artefice e perciò è idolatrico, è una patologia non solo dell’Italia ma in Italia specialmente acuta; è il «chi me lo fa fare» che ricorre nei film di Fellini. Mai meditato a fondo, il passato viene insabbiato, anche giudiziariamente, e le ferite restano aperte. La patologia dell’Italia plasmata da 30 anni di tv berlusconiana è metodica distruzione del tempo. Quando se ne è afflitti accade che una sola cosa resti: l’inalterabile gelatina degli stereotipi. Gli stereotipi sono oggi, dice il Times, la nostra maledizione.
Come si sopprime il tempo? Trasformando la storia lunga in una successione di verbali scoppi rivoluzionari senza seguito, e il leader in prestigiatore carismatico onnipotente. La soppressione del tempo è compiuta da un re che non si cura delle istituzioni, fiero della propria corona ma ignaro di come i regni durino solo se si distingue tra corpo deperibile del monarca e permanere eterno della Corona. Un re che maschera il vuoto dietro il villaggio che Potemkin, amante di Caterina II, allestì lungo il Dnepr, per gabbare la regina (ieri illudeva la cartapesta, oggi lo schermo che gli spagnoli chiamano caja tonta: scatola tonta). Eros e Priapo imperversano come nel saggio di Gadda e sfociano nel sottotitolo gaddiano: «Da furore a cenere». Eros e Priapo vuol dire che il corpo del re è tutto, e il regno niente. Nelle democrazie parlamentari l’equivalente del Regno e della Corona è il senso delle istituzioni, dello Stato, della Costituzione.
La soppressione del tempo accade con la complicità di molti, perché sono molti, in tutti i partiti, ad aver interiorizzato il pensar breve, anzi brevissimo. Non mancano le eccezioni, e grazie alla crisi c’è chi tenta un cambio di rotta. Può apparire paradossale, ma due persone diverse come Obama e Fini allungano lo sguardo, provano a restaurare il tempo. Pur impensierito dal voto di metà mandato, Obama non smette d’insistere sui disastri dei tempi brevi, sull’obbligo di «costruire il futuro». È significativo che Fini abbia dato vita a una Fondazione che usa parole analoghe, «Fare futuro», e che i tempi lunghi siano un suo pensiero dominante.
Società e classi dirigenti riluttano a questo apprendistato. Soprattutto in Italia, Obama è dato per spacciato (i giornali già annunciano il «naufragio della riforma sanitaria») come si dava per spacciato ogni giorno Prodi. Alla furia borsistica dell’istante Obama risponde, nel discorso alle Camere del 9 settembre: «Troppi hanno usato come occasione per assicurarsi punti di vantaggio nel breve periodo, anche se così facendo derubano il paese dell’opportunità di risolvere una sfida di lungo termine». E conclude: «Non è quello che ci proponevamo di fare venendo qui. Non siamo venuti qui per aver paura del futuro».
L’uccisione del tempo ha i suoi conformisti, anche tra chi critica il governo. Anch’essi accumulano vantaggi brevi, trascurano l’arduo durare. Il caso Fini è così importante perché svela la permanenza, ben oltre la destra, dello sguardo tattico, corto. Non sono solo i giornali del premier a scagliarsi contro il presidente della Camera. Una più ampia platea reputa velleitarie le sue parole e proposte: perché le giudica prive di immediati consensi. Quante «divisioni» ha Fini? vien chiesto: è vista corta anche questa. Fini e FareFuturo sono minoritari a destra perché guardano oltre, lontano. Qui è la loro forza, che per molti è debolezza. Sono tanti a difendere uno status quo che garantisce popolarità e profitti, subito.
Anche l’Unione Europea fu pensata con sguardo lungo, e derisa da chi lo aveva corto. È l’inerte saldezza dei vecchi ordini, descritta da Machiavelli nel Principe: «E debbesi considerare, come non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire, né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo ad introdurre nuovi ordini. Perché l’introduttore ha per nemici tutti coloro che degli ordini vecchi fanno bene, e tepidi difensori tutti quelli che degli ordini nuovi farebbono bene». L’ordine vecchio rincuora, ma è dal nuovo che verranno i benefici.
Tempo lungo e spazio vasto (lo spazio della nazione, dell’Europa, del mondo) sono le due grandi vittime di chi guarda corto, e con l’accetta abbrevia, rimpicciolisce. Il sindaco di un paesino del Bergamasco, il leghista Aldegano, ritiene che la targa di Peppino Impastato nella biblioteca comunale non interessi nessuno da quelle parti e vada tolta, negando con ciò che mafia e illegalità siano fatti nazionali. Antonio Rapisarda sul sito FareFuturo scrive che simili offese toponomastiche rinchiudono il divenire collettivo «tra le strade del piccolo rione». Non diversa la reazione del premier alla riapertura delle indagini sulla morte di Borsellino e sul patto Stato-mafia: «È follia pura», ha detto l’8 settembre, che le Procure di Palermo e Milano «ricomincino a guardare i fatti del ’92, ’93, ’94». I magistrati sperperano soldi dei contribuenti, «cospirano come tori inferociti».
Non è cospirazione e non è spregio dei contribuenti accendere la luce su quegli anni. Sono gli anni in cui Dell’Utri «promise alla mafia precisi vantaggi in campo politico» (sentenza di primo grado), e nacque Forza Italia. Gli anni in cui ci accorgemmo che era vinta la battaglia contro il terrorismo ma non contro la mafia (Gian Carlo Caselli, Le due guerre, Melampo 2009). Gli italiani non sono solo consumatori-contribuenti ma cittadini con diritto di sapere il tempo da cui vengono e quello verso cui vanno. Giacché tutti viviamo il tempo come il duca di Guermantes in Proust: siamo «appollaiati» sul passato come «su viventi trampoli che aumentano senza sosta» e, certo, per questo siamo malfermi. Difficile camminare su trabiccoli «più alti di campanili». Ma difficile anche – senza trampoli – guardare alto e vedere lontano.
La Stampa 13.09.09